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Amoreodio di Cristian Scardigno: la recensione

È con un’immagine eidetica che si apre il bel film di Cristian Scardigno. L’emblematica messa in quadro di quel particolare, espressione metalinguistica e di forte impatto visivo: l’occhio. Come l’occhio tagliato da Bunuel in Un chien andalou o l’occhio artificiale estratto dall’orbita in Lo zio di Brooklyn di Ciprì/Maresco. Atto sovversivo e paradossale che si fa provocazione. Ma stavolta l’occhio resta ed è solo velato e filtrato, in un rimando all’attuale invadenza spersonalizzante dei dispositivi artificiali. Una lente a contatto si sovrappone alla pupilla e lo sguardo umano si compenetra all’oculo buio di una webcam. È il filtro per l’estensione dello sguardo, percezione guidata dal mezzo artificiale. Ma è un filtro che potenzia e offusca allo stesso tempo, restituendo gli sguardi spenti e apatici dei volti inespressivi. Un nichilismo che trasuda dai freddi lineamenti in primo piano dei due ruvidi volti giovanili.

I due ragazzi sembrano bambocci che si trascinano in una vuota esistenza, girando senza meta su uno scooter e facendo sesso meccanicamente, estraniati dall’atto stesso. Una rassegnazione esistenziale dall’aroma godardiano. È il quadro di una società preda delle sue forme impersonali, tra avatar, social network e identità fittizie, una costruzione dell’individualità sempre all’insegna dell’artificialità. Ma è anche una società voyeuristica, dove l’atto sessuale passo attraverso lo scatto fotografico o lo sguardo della videocamera. La stimolazione autoerotica si compie alla presenza del feticcio, dell’immagine surrogale, ideale, artificiale. È atto sessuale disincarnato.

I giovani si muovono sempre tra rovine. Dalle antiche mura fatiscenti ai degradati locali di una fabbrica dismessa o di una fattoria abbandonata, fino ad incontrarsi su un piccolo palcoscenico, su cui si muovono come ombre sullo sfondo rosso del sipario. È ancora un rimando a questo vuoto esistenziale, accompagnato dalla costante e pigra ricerca di un’identità. “Con te posso diventare quello che voglio” dice Katia ad Andrea. Figlia, amante, fidanzata, studentessa, assassina. Sono i ruoli sociali. Perché queste domande sul senso dell’esistenza si traducono in ricerca del proprio ruolo, una ricerca passiva che resterà infruttuosa, un vicolo cieco che condanna alle vite vacue. Perché, seppure spinti da un desiderio di diversità, si finirà con l’essere risucchiati nel gorgo omologante, dove predomina l’assenza di valori etici.

Ma quella a cui ricorre Scardigno in questa storia che si riallaccia chiaramente ai reali fatti di cronaca nera, come il noto delitto di Novi Ligure, è un’iconografia che si tinge di noir: l’uso frequente di sbarre, il complotto ai tavoli di un caffè, i toni cupi, fino all’immancabile femme fatale, donna ammaliatrice e corruttrice. Amoreodio è un film che insomma gravita tra la Nouvelle Vague e il cinema di genere.

Amore e Odio si confondono e perdono senso in questa dimensione sospesa, diventano interscambiabili e indistinguibili. Così come risulterà indistinguibile il confine tra omicidio e suicidio, tra delitto e condanna, spingendo al rassegnato atto estremo e violento. L’omicidio non è infatti atto distaccato, nietzschianamente nichilista, superomistico, come può essere quello del Rope di Hitchcock. Qui non c’è distacco emotivo ma annullamento, soppressione della coscienza morale ed estinzione della sfera emotiva.

Ma infondo l’odio è il sentimento che permea l’intera esistenza, in questa visione. I due assassini non perderanno occasione di sfruttare quel sentimento di odio diffuso, quello verso lo straniero, alibi abusato dal male che fermenta in realtà in ognuno e che spesso si annida proprio tra le sicure mura domestiche o tra i giovani che non si vuole e non si riesce ad ascoltare e comprendere.

Nel finale, l’illusoria romantica visione d’amore e di unione eterna saranno solo le condizioni che accomuneranno per sempre i due giovani nello stesso stato di reclusione, non dietro le sbarre reali ma nell’intima e segreta prigione interiore.

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