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By the River di Nontawat Numbenchapol al Festival dei Popoli 54: la recensione

Nontawat Numbenchapol, Bangkok, classe 1983, quattro prove di regia a partire dal 2006 con Weirdrosopher World, sa raccontare storie scomode che, se gli valgono censure e restrizioni in patria, lo collocano fra i nomi più promettenti di quella nuova generazione di registi thailandesi che il successo internazionale di Apichatpong Weerasethakul negli ultimi anni sta contribuendo a far conoscere.
Presente quest’anno a Berlino, sezione Outsiders, con Boundary, storia di Aod, operaio ventiquattrenne incontrato sul set di un film thailandese, che gli racconta il suo passato di soldato al servizio del regime militare in Thailandia e in guerra contro la Cambogia, Numbenchapol parla di guerra e morte, caos e distruzione girando la macchina dalla parte delle vittime. Non vola un proiettile nel suo film, ma lo strazio non ne esce diminuito.
Anche in Sai nam tid shoer (By the River) la denuncia non è urlata, passa attraverso il format documentario su cui s’innestano scarni frammenti di fiction. Fra i due poli “uomo nella natura” e “uomo contro la natura”, l’asse mediano è il fiume Klity, curiosamente chiamato il “ruscello”, che scorre nella provincia di Kanchanaburi, passa per Bangkok e sfocia nel Golfo di Thailandia. Protagonista di un disastro ambientale di portata ragguardevole, sulle sue rive sorge Lower Klity, villaggio abitato da una comunità di origini antiche, etnia karen, dedita alla pesca. Tutt’intorno respira, profonda, la foresta tropicale. Una piccola scuola, una giovane maestra che insegna a leggere ai bambini, un ragazzo con stampella che pesca nell’acqua bassa con un bastone, un gatto a cui fa coccole sopra un carretto insieme alla ragazza nella pausa delle lezioni. Una vecchia cieca, la nonna, che mastica noci di cocco, silenzi ovattati nella calura umida del meriggio. Numbenchapol si sposta con gradazione millimetrica verso il centro, restringe lentamente il campo intorno ai personaggi, porta il linguaggio al minimo. L’inquadratura fissa lascia il tempo di scrutare a lungo oggetti e registrare movimenti, i suoni della natura si smorzano nell’armonia di leggeri arpeggi di chitarra, ma intanto una sensazione di attesa cresce, fino a diventare un presagio funesto e indefinito. Alla metà circa dei settantun minuti del film gli indizi seminati prendono corpo.
L’acqua del fiume è inquinata dalle scorie di un impianto industriale che lavorava minerali a monte della zona. La fabbrica è chiusa da quattordici anni, ma ha lasciato sul letto uno strato di piombo e schiuma come di shampo, i pesci sono contaminati e la salute degli abitanti è stata compromessa gravemente.
Alcuni sono diventati ciechi, altri disabili, ma si continua a pescare quel pesce con mezzi primitivi, tuffandosi anche se c’è pericolo, anche se si riemerge con strane vertigini e si sa che le grotte sul fondo possono creare un risucchio che impedisce di tornare a galla. Sono i discorsi dei due ragazzi della prima parte a mettere in allarme. L’innesto della fiction sul documentario è impercettibile, i sottotitoli traducono voci distanti di una coralità paesana invisibile, ma è quella che sentiamo stringersi intorno alla famiglia che ha perso un figlio, annegato, forse per volere dell’oscuro spirito della foresta.
I gesti rituali di tradizioni antiche ora riprendono il loro ruolo, i bonzi intonano le litanie per il Buddha, si cucina a lungo per le offerte agli spiriti. Nel punto lungo il fiume in cui il corpo è stato cremato c’è la sua tomba, e lì vicino continuano a giocare i bambini e passa un pescatore con quattro pesci infilzati nel bastone da pesca a mano. A Bangkok i pochi abitanti di Klipy di cui nessuno più si ricordava hanno manifestato con cartelli, il funzionario del governo ha detto belle e giuste parole, l’hanno ascoltato sorridenti mentre li esortava a non mangiare quel pesce e ad usare i soldi della paga per comprarlo, se proprio non volevano mangiar carne. Ma quale paga? Siamo poveri.
Una miscela inedita fra presa diretta sul reale e dimensione sognante questa di Sai nam tid shoer, ottenuta con carrellate lente che dilatano le emozioni creando attesa. Le leggende ancestrali della terra affiorano, appena suggerite da una messa in scena sempre più rarefatta, convivono sullo stesso piano narrazione e silenzio totale, realtà e finzione, passato e futuro. Ciò che s’imprime nella visione diventa gusto amaro nella post-visione, le suggestioni della foresta tropicale, le apparizioni del fiume, ora scrosciante, ora calmo e maestoso, non risultano empatiche. Da quella massa d’acqua, che si scompone nelle rifrazioni della luce solare, emergono vicende politiche e sociali della Thailandia e di una realtà rurale che sta morendo. L’impatto con la modernità l’ha fermata e fermerà anche molto altro lungo la sua strada. Quell’acqua carica di piombo arriva fino a Bangkok per poi confluire, al termine della sua corsa, nel Golfo di Thailandia. Quindi, di passo in passo, nel gran padre Oceano.

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