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Faro di Fredrik Edfeldt, evento speciale al Milano Film Festival

Fredrik Edfeldt gira il secondo lungometraggio a quattro anni di distanza dal suo debutto, The Girl, presentato per la prima volta alla Berlinale 2009 dove ottenne una menzione speciale nella sezione Generation 14+.
The Girl era un piccolo film suggestivo che osservava il mondo degli adulti attraverso lo sguardo infantile, miscelando momenti di sospensione fiabesca, ad un teso realismo horror, merito anche della fotografia di Hoyte van Hoytema (Lasciami Entrare).
Il nuovo film di Edfeldt, scritto ancora una volta insieme a Karin Arrhenius, riparte da qui; Hella (una sorprendente Clara Christiansson alla sua prima prova) vive con il padre (Jakob Cedergren) in una casa ai confini con la foresta, dopo un incipit che in modo fulmineo ci mostra una vita tranquilla, riceveranno la visita di alcuni poliziotti accompagnati da un’assistente sociale, il padre riesce a nascondersi mentre Hella lo copre; subito dopo, con una serie di sequenze concitate, i due prepareranno bagagli essenziali, l’uomo ucciderà il border collie della ragazzina, “troppo vecchio” per seguirli, e fuggiranno con la macchina verso la parte più remota della foresta.

Faro, sin dai primi minuti, affronta il racconto di formazione con quell’ambiguità tra tenerezza e violenza che in alcuni momenti fa pensare alla rappresentazione della natura nel primo cinema di Malick o all’estate “crudele” di Frank Perry, esempi che inseriscono il ciclo di vita e morte in una dimensione che è oltre la morale.

Assistito dalla fotografia di Mattias Montero, alla sua seconda prova dopo quella per L’ipnotista di Lasse Hallström, Edfeldt immerge completamente il rapporto tra Hella e suo padre in un’ambientazione naturale, alternando ai momenti di puro stupore di fronte ai piccoli grandi eventi della foresta, una visione “necessaria” e basica dove prevale l’istinto di sopravvivenza, tanto che il film si bilancia in modo alternato tra sequenze di ascendenza quasi magica, come quella dove Hella e il padre esplorano una foresta sommersa, ad esplosioni di violenza “basica”, ben descritta attraverso la presenza del mondo animale per come viene percepito dalla stessa Hella; se la soppressione del cane viene liquidata dal padre come una questione assolutamente pratica e inevitabile, quando la ragazza gli chiederà se le creature del bosco che sente lamentarsi nella notte stiano soffrendo, lui risponderà “sono animali”; più avanti, in una sequenza improvvisa tipica dello stile di Edfeldt, Hella ucciderà brutalmente un volatile con una pietra per sfamarsi, come se avesse assimilato un’idea ciclica e survivalista del rapporto con la natura.

In questo contesto, l’accusa di omicidio che pende sul collo del padre passa quasi in secondo piano, le motivazioni non sono chiarissime e quello che sembra interessare ad Edfeldt è un’idea molto più ampia e primigenia di sopravvivenza; braccato dallo stato, questo piccolo nucleo famigliare, trova l’assoluzione dai propri peccati nella relazione diretta e intima con i cicli della natura; il regista Svedese contrappone ad un racconto sospeso e legato all’esperienza, un montaggio ellittico e volutamente incongruo dal punto di vista temporale, sia che si serva di inserti di improvvisa violenza, o che si fermi su alcuni dettagli dal ritmo irregolare che non hanno quasi mai una funzione simbolica, come un vetro rotto, un coniglio catturato in una tagliola.

Anche i continui riferimenti al racconto popolare e fiabesco hanno questa doppia anima; frammenti evocativi, quasi rituali, che a nostro avviso sono i meno riusciti perchè caricano di senso qualcosa che ha maggiore forza proprio quando non cerca di spiegare l’ambiguità della natura; e al contrario, la brutalità di un montaggio quasi astratto, che rompe prodigiosamente con tutte le sospensioni del film; il duplice ingresso di Hella e del padre nelle abitazioni del bosco, ha tutte le caratteristiche di una fiaba dei fratelli Grimm, ma scarnificata da qualsiasi tentazione simbolica, trova il sogno (o l’incubo) nella sua collocazione quasi illogica rispetto alla narrazione e non attraverso un’immagine d’atmosfera, che possa essere facilmente ricondotta alla forma onirica.

Edfeldt mostra progressivamente l’instabilità del luogo famigliare tradizionalmente inteso; la casa, la tenda, la zattera, l’abitazione con la donna-orco, ritardano in qualche modo l’affermazione della propria identità, che si compie su quella lunga, splendida immagine conclusiva della fuga di Hella verso un Faro separato dalla mondanità.

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