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Il Cielo Può Attendere di Ernst Lubitsch – Venezia 72, Venezia Classici

“Heaven Can Wait” (Il Cielo Può Attendere) è tra i titoli restaurati che saranno presenti alla 72esima Mostra del Cinema di Venezia, nella sezione Venezia Classici. Il film di Lubitsch, presentato in questa versione in anteprima mondiale, è stato restaurato da “The Film Foundation”. La recensione

Quando nel 1943 uscì “Il Cielo Può Attendere”, qualche tempo dopo il cuore di Ernst Lubitsch si fermò per un attimo; il grande regista venne ricoverato, e quasi si temeva per la sua vita. A temere per il peggio era Samson Raphaelson, suo collaboratore e sceneggiatore dal 1930, che, trafelato, gli scrisse qualche riga su un foglio, concentrando tutta la sua ammirazione, il suo dispiacere e tutte le parole non dette, ma che forse non sarebbero bastate.

Lo stesso Raphaelson che ne “L’ultimo tocco di Lubitsch” (ed. Adelphi), definì il regista come “l’incarnazione del cinema” e ancora uomo dall’irripetibile “occhio clinico per lo stile”. Non fu quella l’ultima mossa di Lubitsch (morì nel ’49), ma l’occasione, forse, per Raphaelson di rendere esplicito il suo sentire nei confronti di un uomo con il quale aveva lavorato migliaia di ore assieme, ma che, a sua detta, aveva l’impressione di non conoscere abbastanza.
Questo per il suo essere così irraggiungibile, proprio come il suo cinema, sfuggente, imprevedibile ed irriproducibile come il suo “tocco”, che definì le regole della “sophisticated comedy”, per poi superarle. Uno stile che riusciva a rendere qualsiasi storia un elemento vivo. Una vividezza che riesce ad andare ‘oltre’ al comune trascorrere del tempo, vista la resistenza all’invecchiamento delle sue opere.

Non è da meno “Il Cielo Può Attendere”, storia di Enrico Van Cleve che, da poco defunto, si presenta alle porte dell’inferno per accedervi. Appena incontrato Mefistofele, inizia a raccontargli in un lungo flashback la sua vita, fatta di vizi e piaceri della carne a cui è stato abituato sin da subito, a partire dall’infanzia, fino all rapporto con le donne, creature che in vita (ma non solo) ha amato molto.
L’universo femminile lo ha da sempre in qualche modo turbato e insieme ammaliato: Van Cleve ha dovuto imparare presto a sue spese che per conquistare una ragazza occorrono “molti, molti scarabei”. Sino a quando non avviene l’incontro con Martha Strable, la ragazza che lo ammaliò da subito perché “diceva le bugie alla mamma”.

La donna che qui fa perdere le staffe a Enrico, interpetato da Don Ameche, è Gene Tierney, quella che sarà “Femmina Folle” nel film di Stahl del 1945, e che qui incarna perfettamente la donna sfiorata dal tocco di Lubitsch: forte, indipendente, coraggiosa; elementi questi, che il regista ha colto in figure femminili interpretate da attrici del calibro di Kay Francis, Greta Garbo, Jennifer Jones e molte altre; donne argute e intelligenti, dalla sfrenata forza e sensualità, tanto da atterrire gli uomini con cui hanno a che fare. E’ così che il cinema di Lubitsch risulta come una tentazione alla quale cedere.

Nella solitudine che accompagna Enrico negli ultimi attimi della sua vita, egli trova conforto nell’immaginarsi immerso in un mare di whiskey mentre danza sulle note de “la vedova allegra”, cingendo una bionda. Desideri e piaceri questi che si porterà “nell’altro mondo”, dove rivede, riavvolgendo il nastro della propria vita, le proprie azioni senza avere, però, la possibilità di mutarle, lasciando il peccato lì dov’è (e forse perpetuarlo anche nell’aldilà).

Una pellicola che ha sofferto di una forte privazione sul finale da parte della commissione per la censura italiana, immaginato da Lubitsch come un incontro fatale nell’ascensore per il Paradiso di Van Cleve con una donna che doveva fermarsi in Purgatorio e che lo distrae dal raggiungere la sua meta, poiché “Il cielo può attendere”.

Aldilà dei temi che ricorrono nella filmografia del regista naturalizzato americano (il doppio, il riferimento all’opera di Goethe, il dongiovanni inguaribile) quello che si avverte maggiormente qui è una dichiarazione d’amore nei confronti del cinema. Non un testamento di morte (né di Lubitsch né di Van Cleve), ma un vero e proprio testamento di vita: la vita dopo il film, il cinema dopo la morte.

Il cinema di Lubitsch è, dunque, (im)perfezione: perfezione perché aveva la capacità “di costruire alla perfezione una scena, di scriverla, filmarla, montarla e di lasciarla insieme aperta, viva per il tocco finale del pubblico“; imperfezione perché “le scene costruite da Lubitsch sono”, come giustamente fa notare Enrico Ghezzi nella sua post-fazione al libro di Raphaelson, “come vuoti di gruviera da riempire con desiderio goloso“. Peccato capitale ed assieme estasi paradisiaca, due facce della stessa medaglia, che è l’amore per il cinema, le quali hanno in se’ un piacevole senso di irreversibilità.

RASSEGNA PANORAMICA
Voto
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Rachele Pollastrini è curatrice della sezione corti per il Lucca Film Festival. Scrive di Cinema e Musica
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