Home alcinema Mission: Impossible – Rogue Nation di Christopher McQuarrie: la recensione

Mission: Impossible – Rogue Nation di Christopher McQuarrie: la recensione

Quando Ethan Hunt entra in un negozio di vinili e si intrattiene in amabile conversazione con la bella commessa sulla qualità performativa di alcuni musicisti Jazz, a un certo punto, lo scambio di battute che alludono ad un linguaggio cifrato cambia improvvisamente dal tono iniziatico, garantito anche dalla cattedrale audiofila, per assumere una valenza esplicitamente e scopertamente cultuale: “Le storie – dice la commessa a Tom Cruise – quelle che si raccontano, sono vere? hai fatto davvero tutte quelle cose?“. Hunt osserva in silenzio la devota fan con quel sorriso tra stupore e beffa a cui Cruise ci ha abituati e rimane saldamente ancorato al mistero, scomparendo in una cabina per i pre-ascolti, quasi per officiare una celebrazione.

Le storie, non sono semplicemente quelle di Hunt, lo sguardo adorante della commessa-fan ce lo dice chiaramente, ma alludono ad un percorso mitico che include l’abilità necessaria per maneggiare uno shaker, la capacità di confrontarsi con il simulacro de “lo spaccone”, la difesa della propria comunità dall’invasione aliena e l’incredibile mobilità che consente a Cruise/Hunt di compiere l’impossibile, anche quando si tratta di disegnare un identikit a mano libera sul proprio palmo.

Cruise è certamente il perno intorno al quale ruota un intero universo mitopoietico centrifugo, rispetto al film e ai film in oggetto; per rendersene conto non c’è bisogno della critica militante (che come noi, milita e incide giusto in casa propria), né di ingaggiare, per quanto divertente, una connessione chiarissima e non così riconciliata come sembra, con l’asse hollywood / new age; molto prima del didattico Alex Gibney c’erano già due “saggi” ferocissimi e ambigui sull’argomento, entrambi costitutivi della filmografia completa di Michael Tolkin come regista e assolutamente complementari nel rivelare un processo individuale e collettivo che prevedeva, già nei primi anni novanta, l’attuale deriva neo-spiritualista. Per il comunque interessante tentativo di trovare autori “non accreditati”,  anche fuori dal proprio ambito specifico, rimandiamo ad un gioco più laterale e stimolante su David Bowie regista.

Ma le strategie oblique, più nell’accezione simmetrica che in quella di libertà combinatoria, nel film di McQuarrie sono moltissime e giocano con il rispecchiamento e la moltiplicazioni di più corpi/modelli, non solo all’interno del recinto imposto da Cruise. Un processo (non ci stancheremo mai di ribadirlo) del tutto industriale, dove una macchina, per funzionare al meglio, deve per forza incorporare i pezzi di quelle precedenti anche solo per garantire quell’automatismo “celibe” dell’estasi che non si accende, per rubare un’espressione di Alberto Boatto dal suo bel saggio che dalla ghigliottina  arriva a Duchamp.

E il sali-scendi del meccanismo è proprio quello autoerotico, con Cruise/Ferguson l’una immagine riflessa dell’altro, in quella distanza che da Casablanca (con citazioni a catena annesse) all’attrazione per le scarpe di Ilsa manifestata esplicitamente da Hunt, costretto in seguito a sfilarle sotto perentoria indicazione, ci indica l’avvitamento di un doppio la cui unica possibilità interattiva è quella della contemplazione devozionale o del corpo utilizzato come strumento, scudo, protezione, veicolo per una discesa tra i tetti o una sparatoria . Un’origine, quella della misteriosa agente britannica che come da cognome, potrebbe essere Faustiana, proprio nel senso di doppia natura ma anche nel continuo entrare e uscire dal set in una fuga dannata senza soluzione di continuità che a un certo punto, proprio in Rogue Nation, rivela gli obiettivi quasi prometeici di “rubare il fuoco agli dei” quando invita Hunt ad occupare insieme a lei una posizione liminale: “possiamo essere quello che vogliamo“, senza padroni, senza confini nazionali e con logiche proprie, restituendo in fondo una versione individualista del concetto di stato canaglia.

Il doppio Hunt/Ilsa non è quindi così diverso da Solomon Lane nei suoi piani di sabotaggio degli equilibri internazionali; in questo senso Christopher McQuarrie riscrive quasi una versione ipertrofica del suo I soliti sospetti, moltiplicando la simpatia per il diavolo come un genoma che attraversa quasi tutti i personaggi; certamente tra Hunt e Lane viene tracciata un’ennesima serie di rispecchiamenti, a partire dal box-cabina invaso dal gas in cui si troveranno specularmente all’inizio e alla fine del film, fino ad un confronto con CIA e governo che li colloca entrambi su di un confine eretico che possa garantire la co-esistenza necessaria alla realizzazione di pulsioni opposte e che si completano a vicenda.

La Turandot, a cui forse si è voluto dare un significato sin troppo dialettico rispetto agli elementi melò di un film che probabilmente è molto più sbilanciato dalle parti della screwball comedy, non solo per le continue schermaglie tra Hunt e Ilsa ma anche per quelle ormai consolidate tra Cruise e Simon Pegg, si trova nel film per occupare una posizione simile alla Tosca di Quantum of Solace proprio nel tentativo mimetico di stabilire una relazione diretta con i personaggi del film ma anche per definirne la continua messa in abisso di ibridazioni, musical incluso; e se proprio volessimo considerarla come un testo laterale, questo risuonerebbe con tutte le combinazioni binarie del film, non solo quelle legate ad Ilsa e Hunt nella definizione di un erotismo che si esaurisce nello spiarsi attraverso il diaframma di un “grande vetro”, basta solo pensare che questo stesso dialogo raffreddato avviene più di una volta e proprio attraverso una lastra, tra Hunt e Lane, la cui relazione ha una sostanza comune a quella con Ilsa.

Manifestazioni viventi del destino, come dice Alec Baldwin riferendosi al solo Hunt, la cui linea, perfettamente e per certi versi meravigliosamente disegnata per il cinema dei grandi archivi digitali, cimiteri sotto lune fatte di luci al led, procede verso l’alterazione dell’ontologia del desiderio, allineando a questo l’oggetto stesso, non più la mancanza ma un’eterna vedovanza che prolifera se stessa.

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