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Il signore delle formiche di Gianni Amelio: recensione

Il cinema di Gianni Amelio, è da sempre legato alla frattura tra gesto e parola. Ne "Il signore delle formiche", individua la potenzialità di questo scarto con uno studio incisivo dei volti, capaci di trattenere la crudeltà del mondo e la fuggevolezza del tempo.

Non dovrebbero generare stupore le parole di Ugo Casiraghi scritte a caldo dalla 22/ma edizione del Festival di Venezia dopo la visione di “Victim”, il neo-noir di Basil Dearden interpretato da Dirk Bogarde, la cui portata rivoluzionaria fu direttamente proporzionale alle reazioni censorie della commissione britannica e del suo omologo statunitense. L’omosessualità intesa ancora come crimine, è un concetto che innerva l’Inghilterra di quegli anni e il Sexual Offences Act del 1967 non ne mitigherà lo stigma, confinando nella sfera privata ciò che ancora viene percepito come un’aberrazione. Dearden usa l’impalcatura del cinema nero come disinnesco di quella legale coeva, allestita per criminalizzare il diritto d’amare, con un film che anche attraverso la parola, sovverte per primo i paradigmi linguistici legati alla rappresentazione dell’omosessualità. La reazione del critico de L’Unità sul numero del 2 settembre 1961 è tiepida per quanto riguarda il giudizio soggettivo, ma ferocemente violenta sul piano lessicale. Per Casiraghi il film è l’effetto di un clima pesante che affligge l’Inghilterra a causa del “grandissimo numero di anormali venuti alla luce nei casi di cronaca nera“. L’anormalità è solamente una delle qualità attribuite dal critico a coloro che il quotidiano dove scrive, definisce dispregiativamente come invertiti fino a tutti gli anni sessanta e oltre, in qualsiasi occasione, dalla cronaca nera alle pagine di cultura, spettacolo e politica, spesso per individuare uno dei vizi della società borghese capitalista, capace di “digerire tutto, salvo appunto una lotta rivoluzionaria coerente e seria contro il «sistema»“, per assimilare “tranquillamente […] il programma del F.U.O.R.I, quando i suoi soci se ne vanno in giro con la pecetta all’occhiello” (L’Unità, 15 ottobre 1972, recensione di Ragazzo e Ragazzo, pièce teatrale di Riccardo Reim).

Si comprende allora la scelta apparentemente infedele di Gianni Amelio nell’affidare uno spazio importante ad un immaginario giornalista de L’Unità, interpretato nel suo ultimo film da Elio Germano e impegnato nella battaglia per difendere Aldo Braibanti dal reato di plagio, mentre ne ingaggia una complementare contro il moralismo del giornale per cui scrive. Si muovono nello stesso interregno il direttore de L’Unità animato da un sacro paternalismo sovietico, difficilmente associabile alla figura di Maurizio Ferrara, che il 13 luglio del 1968 usò parole di fuoco contro l’articolo 603 del codice penale per rappresentare di fatto un’eccezione tardiva, e l’epifania di Emma Bonino, testimone di una visione storica che connette le tracce del passato con i segni del presente. Di quella che fu la sistematica denuncia di Marco Pannella su “Notizie Radicali”, fino all’incostituzionalità del reato di plagio avvenuta nel 1981, unitamente agli interventi di Giuseppe Loteta su “L’Astrolabio”, non c’è traccia nel film di Amelio, se non in quella presenza simbolica di Bonino di cui dicevamo, segno di una scrittura ellittica, più vicina alla creazione di un corto-circuito poetico che alla definizione di convergenze strettamente documentali.

Su questo sfondo, la vicenda principale viene descritta con elementi precisi, soprattutto per quanto riguarda l’accanimento nei confronti di Giovanni Sanfratello, allievo e compagno di Braibanti, sequestrato dalla famiglia durante la loro convivenza e recluso coattivamente in manicomio, dove sarà sottoposto ad una massiva applicazione di terapia elettroconvulsivante.

Il nome di Giovanni diventa quello di Ettore Tagliaferri, personaggio letterario, per consentire ad Amelio un avvicinamento altrimenti impossibile e definire con intima precisione la sostanza di una relazione amorosa che è anche confronto generazionale mai riconciliato. Il cinema del regista calabrese, da sempre interessato alla frattura tra gesto e parola, individua la potenzialità di questo scarto con uno studio quasi ossessivo dei volti. E in questo senso, “Il signore delle formiche“, non è semplicemente un film di primi piani, ma un tentativo sofferto di riempire lo schermo con i segni non interrogabili della psiche, entro una tavolozza capace di trattenere la crudeltà del mondo e la fuggevolezza del tempo.

Il processo giudiziario stesso viene collocato fuori fuoco, in una dimensione distante e aliena rispetto alla capacità dei visi di subire e allo stesso tempo, sabotare, una società già “facciale”. Non è solo la qualità di questi volti, ma anche la durata dei primi piani in relazione al mondo che vorrebbe sovrastarli, rumore di fondo che non può niente rispetto alla persistenza della memoria poetica e alla creazione di una realtà alternativa come quella che regola l’eusocialità degli imenotteri.

La distanza dal chiasso sociale è la stessa che Amelio cerca di assegnare al suo Braibanti, lontano dalla dimensione collettiva della lotta politica e più incline a incanalare la tensione civile nel sottrarsi nietzschiano dell’essere al gioco binario e illusorio dello svelamento. Rispetto alla lucidità del diritto e alla vis civile di Marcello Scribani, il giornalista de L’Unità, il Braibanti interpretato da Luigi Lo Cascio trattiene le luci e le ombre di una mitezza tagliente.

C’è allora il senso dei versi scritti dal carcere di Rebibbia nel 1968, dove tutto il sistema processuale diventa espressione di una visione del mondo ferma all’orda e alla persecuzione di ciò che non si conforma, mentre “ancora di metafisica si muore“. Quella connessione tra la lirica scabra di Braibanti, il suo interesse per i processi biologici invisibili e la ricerca degli elementi fenomenici nella musica ancestrale di Sylvano Bussotti, Amelio prova a tradurla sul piano visuale, nella mappatura di gesti negati e nella forza possibile del volto di Leonardo Maltese, annichilito nel dolore, eppure alla ricerca estatica della luce, al di là delle percosse e delle violenze subite.

Anche la fugace apparizione di Emma Bonino sembra conservare la stessa stratificazione nelle rughe del volto segnato da decenni di battaglie civili, close-up che è interpretazione poetica di quella stessa testimonianza e decifrazione della realtà sociale fatta attraverso i corpi, a cui Amelio contrappone come riflesso negativo lo slogan della parola, gridato da chi crede di battersi per le utopie che contano.

Braibanti soggetto politico, fuori da qualsiasi clericalismo, anche quello del suo partito d’appartenenza, esprime una dimensione pulsionale che Amelio circoscrive alla corrispondenza amorosa come atto di creazione poetica. Questa si manifesta nello scambio fecondo tra maestro e allievo, parte di una mutazione affettiva e cognitiva che risiede nel rischio di contaminarsi, influenzarsi a vicenda, trasformarsi l’uno nell’altro, sostituendo l’illusione della completezza con la contemplazione delle differenze. Tutto ciò che il reato di plagio, nella sopravvivenza feroce della violenza burocratica fascista, riconduceva in quell’area della visione dove il diavolo è solo nell’occhio di chi guarda.

Il riflesso opposto delle madri, quelle di Ettore e Aldo, incardina due figure sofferenti all’idea di “natura castrata” inseguita e voluta dal sistema politico. La prima schiacciata dallo spazio ideologicamente naturale destinato alle donne dall’Italia cattolica, la seconda mentre esce da quello stesso solco, nel rifiuto consapevole e fiero di un calvario cristologico imposto.

Sono tutte figure che Amelio osserva nello scarto potenziale tra evento ed effetto. La madre di Ettore nel momento in cui una richiesta d’affetto si traduce in un’indicibile manifestazione erotica di potere. Quella di Aldo nella sospensione davanti ad una realtà che si esprime attraverso l’abuso, ben descritta dal suo sguardo atterrito davanti alle scritte ingiuriose contro il figlio, che imbrattano le pareti esterne dell’abitazione. I gesti di Ettore e Aldo trattenuti dal contenuto di una lettera.

Ciò che non si può dire, nel segreto di un volto, tra opacità e trasparenza.

[Foto, poster e trailer fornite da ufficio Stampa 404 – Samanta Dalla Longa – Foto dell’articolo di Claudio Iannone ]

Il signore delle formiche di Gianni Amelio (Italia, 2022 – 130 min)
Interpreti: Luigi Lo Cascio, Elio Germano, Sara Serraiocco, Leonardo Maltese, Anna Caterina Antonacci (I), Rita Bosello, Davide Vecchi, Maria Caleffi, Roberto Infurna, Valerio Binasco, Alberto Cracco, Jacopo Relucenti, Giuseppe Aiello, Emma Bonino, Ferruccio Braibanti, Gina Rovere, Elia Schilton, Giovanni Visentin, Mateo Zoni
Sceneggiatura: Gianni Amelio, Edoardo Petti, Federico Fava
Fotografia: Luan Amelio
Montaggio: Simona Paggi

RASSEGNA PANORAMICA
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Michele Faggi è un videomaker e un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana. È un critico cinematografico regolarmente iscritto al SNCCI. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e new media. Produce audiovisivi
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