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Love & Peace di Sion Sono: la recensione

Durante il novembre 2014 l’architetto giapponese Arata Isozaki interveniva sul progetto di riqualificazione dello Stadio Olimpico di Tokyo affidato alla britannica Zaha Hadid definendolo come una “struttura inutile e pesante” simile ad una “tartaruga che aspetta l’inabissamento del Giappone, per poter andarsene via nuotando“. Senza entrare nell’ambito di questioni specifiche ci interessa in questa sede ribadire quanto il cinema combinatorio e selvaggio di Sion Sono sia spesso sottoposto a mutazioni repentine a contatto con la realtà sociale del suo paese, basta pensare alla sceneggiatura di Himizu, riscritta alla luce degli eventi dell’11 marzo 2011 e a come tutte le sue produzioni post-fukushima abbiano intessuto una dialettica stratificata, in forma diacronica e sincronica rispetto al corpus della sua stessa filmografia.

Love & Peace è un progetto che il cineasta giapponese ha rimandato lungo due decenni e che viene concluso in una delle fasi più prolifiche della sua carriera in mezzo a film apparentemente diversissimi tra loro, ma che riescono a comunicare attraverso immagini ricorrenti e sopratutto esasperando i confini generici della cultura popolare, non importa in quale direzione. Il confronto con The Whispering Star è chiarissimo in questo senso; all’estrema stilizzazione di una realtà mentale elaborata attraverso alcuni topoi della fantascienza filosofica corrisponde l’esplosione pop e “creaturale” di Love & Peace, con una posizione centrale occupata in entrambi i casi dagli oggetti della memoria, immagini mnestiche che si materializzano attraverso lo scarto, il relitto salvato dalle macerie oppure lo strumento di consumo che sopravvive alla velocità del mercato in un’isola separata dal mondo.

Love & Peace costruisce una relazione meno esplicita con il terremoto del Tōhoku, sovrapponendo il desiderio di ricostruzione alla megalomania di un progetto che afferma la potenza del paese a costo di avviare un processo economicamente autodistruttivo. Dallo schermo della televisione nazionale i talk show sulla riqualificazione dello stadio in previsione delle Olimpiadi di Tokyo del 2020 si rivolgono direttamente al peggior giapponese, Ryoichi Suzuki (Hiroki Hasegawa), perdente tra i perdenti, commesso per una piccola azienda sbeffeggiato dai colleghi e con il sogno di trasformarsi in una rockstar. Gli insulti dell’anchorman indirizzati al giovane assumono l’angolatura di una depressione soggettiva sottolineata dalla concentrazione ipertrofica degli oggetti di consumo tra le quattro pareti della sua stanza, dove tutto l’universo immaginale viene concentrato secondo i parametri dell’esclusione sociale e dell’Hikikomori, con un confronto costante tra schermo e realtà individuale, tanto che durante lo zapping emergono alcuni frammenti dove gli adolescenti di Tokyo sono rappresentati come individui senza più memoria, attraverso una “cronaca del dopobomba” che ha completamente rimosso i responsabili dei disastri nucleari di Hiroshima e Nagasaki: “gli Americani? Impossibile, sono nostri amici”.

In assenza di profondità storica, l’unico teatro possibile diventa quello pop, propellente principale per un’affermazione dell’ego, costantemente messo in abisso tra esigenze individuali e desiderio collettivo, nel confronto di Ryoichi con la sua vita quotidiana sullo sfondo di un pachiderma architettonico che sembra rappresentare il futuro dell’intero Giappone, come profeticamente descritto dalle parole di Arata Isozaki.
In questo senso, il racconto di formazione del giovane commesso passa attraverso una mitologia corrotta rispetto alla quale agli oggetti di consumo è riservato lo stesso inesorabile destino; l’oblio causato dalla mancanza di memoria storica. Mentre nella sua stanza Ryoichi gioca con una piccola tartaruga battezzata con il nome di Pikadon, collocata nella posizione di un mostro della tradizione Kaijū e lanciata a velocità ridotta contro una riproduzione in scala dello stadio olimpico, posto alla fine di una strada delimitata da scatole commerciali a rappresentare i palazzi di Tokyo; separati dalla megalopoli vivono una serie di giocattoli guasti e dimenticati ai margini di una discarica. Ad accudirli è un vecchio signore (Toshiyuki Nishida) che armeggia con pozioni e caramelle magiche, donando all’inanimato la facoltà del movimento e della parola e promettendo a tutti un futuro migliore prima ancora della trasformazione definitiva nel ruolo di Santa Claus, ennesima stilizzazione tipica del cinema di Sion Sono che a differenza del già citato The Whispering Star qui procede per accumulo, concentrando le riflessioni sul destino del Giappone in questa piccola area protetta, piena di giocattoli rotti e con un custode che non riesce a mantenere le promesse.

Tra gli ospiti meccanici e di peluche arriverà proprio Pikadon, dopo una breve odissea che dallo scarico del cesso aziendale porterà la testuggine nella discarica di giocattoli, a bordo di un legnetto che attraversa la rete fognaria della città. Le dosi sbagliate di una delle diavolerie chimiche dell’anziano custode invece di donare la parola a Pikadon ne accresceranno le dimensioni fino a raggiungere le proporzioni di un mostro canterino animato dallo stesso spirito di affezione nei confronti di Ryoichi, ormai diventato una rockstar e prossimo ad un’esibizione memorabile nella grande struttura sportiva.

Sion Sono realizza il suo consueto tour de force attraverso la stratificazione di più generi, mettendo insieme Kaijū Eiga, fantasy, i Christmas movie statunitensi e l’animazione stop motion al più alto grado di approssimazione, tanto da infondere al film un’aura artigianale dalle caratteristiche disturbanti, sopratutto nella collisione tra i riferimenti ad un target infantile e quella sporcizia che si respira nelle produzioni Sushi Typhoon più orientate alla prostetica o semplicemente all’animazione di oggetti trainati da un sistema di fili.

Come accade sovente nel suo cinema, la superficie popular e “otaku” viene corrotta dal suo interno attraverso l’esasperazione e lo sconfinamento, con il lamento elegiaco che fiammeggia sullo sfondo mentre in questo caso l’ultra violenza viene sostituita da una fantasia altrettanto delirante che si serve dell’innesto imperfetto, del brandello, del cut and paste invece di ricorrere a quell’illusione perfetta ottenuta dalla combinazione di elementi narrativi, citazioni e suture digitali, qui ridotte davvero a pochissimi interventi del tutto inattuali e vicini al VFX anni ottanta di Frank Oz e Jim Henson, non certo alla tradizione colta che procede dal cinema di Kihachirō Kawamoto.

Oltre che dal repertorio classico rivisto in versione “pop” dal noto lavoro di “sintesi” elettronica firmato da Walter (Wendy) Carlos, il film è sostenuto dalla colonna sonora “eccedente” di Yasuhiko Fukuda, facendo così coincidere questa propensione epico-melodrammatica completamente fuori dalle righe anche da un punto di vista auditivo, con l’incredibile performance di Hiroki Hasegawa, per giungere al culmine con Slow Ballad, un classico dei RC Succession, la band nata nei primi anni settanta in piena esplosione glam intorno a Kiyoshiro Imawano, musicista a sua volta impegnato attivamente, almeno dalla seconda metà degli anni ottanta, nelle battaglie civili contro il nucleare. Il brano, pubblicato autonomamente nel 1976 dopo una serie di problemi tra la band e il management ufficiale, si basa sulla tradizione R&B statunitense assorbita dagli RC Succession durante i primi tre album usciti tra il 72 e il 76 e riletta attraverso una serie di influenze, dal soul classico al glam rock. Ballata crepuscolare, commenta alla perfezione lo stato di transizione di Ryoichi e la sua incapacità fino a quel momento di esprimere i propri sentimenti nei confronti di Yuko (Kumiko Aso), la collega di lavoro che lo osserva fin dall’inizio del film, mentre gli altri lo maltrattano. In quella geniale rappresentazione dell’ego di Ryoichi e di tutti i giapponesi spinti ad allinearsi ad un delirante sogno di gloria, raffigurato dalla tartaruga gigante che sovrasta lo stadio gremito di pubblico, dopo aver distrutto una parte di Tokyo nel suo goffo e mostruoso incedere, c’è tutta la sostanza di quel sogno immaginato dall’interno di un’automobile per come viene descritto nelle liriche di Slow Ballad; quello stato tra veglia e sonno che sorprende nuovamente Ryoichi da solo e vulnerabile, con lo sguardo di Yuko come unica via d’uscita da un paese che affonda.

Dicevamo appunto, cinema combinatorio: in questo stratificato utilizzo di numerosi elementi che appartengono alla cultura popolare, fino a sfiorare riferimenti e recuperi dalla storia del rock nazionale, Sion Sono dimostra ancora una volta adesione e allo stesso tempo distacco estremo dal materiale che utilizza, a partire da quella dicotomia “Amore e Pace” che assegna rispettivamente a Ryoichi e Pikadon, quasi a rappresentare due pulsioni correlate la cui retorica è capace di generare più violenza di quello che si potrebbe immaginare (“love” che avanza per le strade di Tokyo e la distrugge e il paese che si stringe intorno ad una nuova mitologia pop). Quello che rimane è un gesto attitudinalmente “punk” inteso come attaccamento e improvviso rifiuto delle tradizioni e che attraverso l’uso spregiudicato di un linguaggio di frontiera, punta alla rifondazione di un’identità individuale lasciandosi alle spalle l’ego nazionale.

Love & Peace – Trailer

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