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Mon Roi – il mio re di Maïwenn: la recensione

In Mon Roi Maïwenn tira i fili di una lotta tra Tony (Emmanuelle Bercot) e Georgio (Vincent Cassel) con quella prossimità alle loro azioni quotidiane che rischia, coraggiosamente, lo sconfinamento nell’esasperazione dei toni. Viene in mente il cinema di Jacques Doillon declinato in una forma più pop e senza lo stesso lavoro sulla parola.

Rimangono i corpi, certamente non così lanciati l’uno contro l’altro come in Mes séances de lutte, ma veicolo di un linguaggio molto simile, quello di un cinema che si affida alla libertà dei propri attori, per dare forma anche all’osceno, all’irrapresentabile a tutto quello che, secondo un principio discutibile, dovrebbe esser tenuto alla giusta distanza. Maïwenn si lascia alle spalle questo tipo di preoccupazioni, più adatte ad un ipotetico “autore” orientato al controllo, più attento all’equilibrio del racconto o alla propria scrittura, preferendo fortunatamente l’esperienza vitale del set, collettiva e soggetta a continue mutazioni.

Mentre Tony cerca di recuperare le funzioni motorie dopo un incidente sciistico probabilmente autoindotto, dieci anni di storia affettiva con Georgio vengono ricombinati senza offrirci veramente una risposta sulle cause che hanno spinto la donna ad un gesto così estremo. A Maïwenn interessano le cicatrici sul corpo della Bercot, le traumatiche sedute di fisioterapia e allo stesso tempo il gioco pericoloso della coppia, sempre ai limiti di una violenza che non esplode mai effettivamente, ma che delinea l’abuso come drammatico spazio di incontro.

C’è una linea sottile che connette Mon Roi all’ultimo film diretto dalla Breillat e ancora inedito nel nostro paese. In Abus de faiblesse la cineasta francese perde drammaticamente la membrana di sicurezza del suo cinema più antropologico attraverso l’alter-ego di Isabelle Huppert, svelando una terribile connivenza tra potere e vulnerabilità, controllo e perdita dello stesso, e tutto attraverso la ri-messa in scena dell’invalidità vissuta direttamente come il punto di incontro tra questi due stati.

In Mon Roi gli aspetti più violenti del personaggio interpretato da Cassel, incline alla manipolazione, alla menzogna, ad una continua instabilità ed infine all’abuso psicologico, vengono di volta in volta riletti attraverso il filtro soggettivo di Tony, certamente in una posizione molto simile a quella della Breillat/Huppert nei confronti di Rocancourt/Kool Shen. Maïwenn si affida completamente alle capacità reattive della Bercot, riuscendo a cogliere attraverso il suo sguardo la tenerezza e la vulnerabilità di Georgio con sorprendente aderenza alla verità, non importa se questa spezza i confini del verosimile, perché la descrizione di un sentimento indicibile passa anche attraverso tutto quello che non siamo preparati a tollerare.

Alla razionalità del fratello (Louis Garrel), il cui abbraccio protettivo non è probabilmente diverso da quello di un qualsiasi spettatore “giudicante”, la forza di Tony risiede in una fisicità estrema che le consente di resistere a tutto quello che per gli altri sembra un’evidente discesa all’inferno. Se le lunghe sedute di recupero mettono al centro un corpo ferito, sembra che Maïwenn ci suggerisca un’abnegazione simile nel contatto della coppia, sempre sul confine tra gioco e appropriazione violenta.

È la stessa Tony che nel primo approccio con Georgio in discoteca si avvicina all’uomo provocandolo in modo esplicito per ottenere l’attenzione che desidera, e con un movimento opposto ma assolutamente sovrapponibile, sarà sempre lei a rivelarci l’invisibile, quando osserva l’ormai ex marito da vicino ma allo stesso tempo non vista, mentre l’espressione del suo volto e la qualità del sorriso, ci raccontano l’uomo che il suo occhio riesce a vedere.

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