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Sguardi Altrove XXIII – Chantal Akerman, il cinema, il tempo e lo spazio: una diaspora infinita ai confini della vita

5 Ottobre 2015, uno choc, la morte di Chantal Akerman.
Un suicidio? Forse.
Unanime lo sconcerto e il dolore nel mondo di quei cineasti che l’hanno amata, rispecchiando sé stessi in quel suo cinema scabro, inquieto, così profondamente intimo, personale, ma insieme capace di inventare un tempo e un luogo “altri”, che sono il tempo e il luogo del cinema.
Nelle parole di ognuno risuona il lascito che la sua esperienza ha contribuito a costruire in una storia iniziata a 18 anni appena, con Saute ma ville (Salta, mia città, 1968), dopo la folgorazione, quindicenne, di fronte a Pierrot le fou di Godard: “Un’esperienza di quelle che cambiano il tuo modo di pensare, di vedere, di concepire il cinema” ha detto Todd HainesQuesta camera alla Ozu che si rapporta solo a lei (n.d.r.:Haines parla di Jeanne Dielman) ha suscitato in me un’emozione inimmaginabile ”.
Gli fa eco Gus Van Sant: “Quando ho girato film come Gerry, Elephant e Last Days il suo cinema ha avuto su me un’influenza più che essenziale: c’erano per me solo Béla Tarr e Chantal Akerman”.
Apichatpong Weerasethakul parla di lei come uno dei pochi “franchi-tiratori” che ancora continuavano a stupire nel mondo alla deriva del cinema cosiddetto sperimentale, mentre per Claire Denis era un’eroina, un modello unico, impossibile da imitare.

Il “tempo del silenzio”, così Antoine Compagnon, professore al Collège de France, definiva il suo cinema dopo la conferenza su La Captive ispirato a La Prisonnière di Proust: “Akerman non racconta Proust, ma è proustiana nell’evocare emozioni, nel senso del tempo”. E ancora coglie del suo cinema la sostanza più autentica Catherine David, direttrice artistica della X edizione di Documenta Kassel (Akerman fu presente con una sua installazione, De l’autre côté, all’edizione successiva del 2002).

Il cinema era per lei una forma di vita e di pensiero. C’era una necessità, un’evidenza di travaglio estetico tali che penso a “Jeanne Dielman” o a “d’Est” di cui restano intere sequenze nella memoria. Otteneva il massimo effetto con mezzi minimi, aveva un’idea morale della forma, lontana anni luce da certe gesticolazioni attuali”.

La retrospettiva che la 23° edizione di Sguardi Altrove le dedica a Milano dal 17 al 25 Marzo 2016, nelle locations di Spazio Oberdan, Mudec, Fabbrica del vapore, arriva quanto mai tempestiva e opportuna, presentando quattro film tra i  più conosciuti: Saute, ma ville (1968) La Chambre (1972) Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles (1975) e Golden Eighties (1983).

Opere di un esordio folgorante e film della maturità piena, contengono dichiarazioni di poetica a cui Akerman è rimasta sempre fedele, anche quando all’orizzonte europeo si sostituivano i grattacieli di NY, i confini fra Messico e USA o l’Oriente russo. La sua identità di donna, di belga, di figlia di migranti ebrei colpiti dalla maledizione di Auschwitz, torna con varie declinazioni a radicarsi in tempi e spazi intesi come contrafforti di un’architettura esistenziale altrimenti labile nella sua provvisorietà.

Nei suoi film è costante il cortocircuito tra l’istanza autobiografica, che arriva a mettere in scena il suo stesso corpo (Saute, ma ville, La chambre, Je, toi, il, elle) o accompagna le immagini in voice over (è lei stessa a leggere le lettere ricevute dalla madre in News from Home) e il rischio dello smarrimento, il senso del confine, che può essere un immenso territorio inesplorato tra steppe russe e deserti dell’Arizona o le pareti anguste di un appartamento condominiale, non più Casa di bambola ma inferno domestico della solitudine esistenziale.

Arriviamo così al suo capolavoro, quel fluviale Jeanne Dielman, 23 Quai du Commerce, 1080, Bruxelles, girato a 25 anni, sette anni dopo Saute, ma ville. Nel primo film uno spazio essenziale, un cucinino, è il luogo in cui una giovanissima Chantal celebra, nel tempo di un corto, un rituale di gesti consuetudinari (cucinare, mangiare, pulire, lavare), trasformando l’angusto box in un set in cui i movimenti del corpo perdono man mano senso e coerenza fino a diventare gesti assurdi, sconnessi da un cervello allineato alla normalità degli schemi condivisi, e culminano in un suicidio assolutamente plateale, molto buñueliano, con la testa morbidamente adagiata sui fornelli del gas e la città che finalmente esplode al seguito.

In Jeanne Dielman il perimetro tempo – spazio si allarga a tre giorni e a due stanze, dotandosi di migliori arnesi del mestiere. La cucina è ampia e ben arredata e si connette tramite corridoio alla camera da letto, che Jeanne (Delphine Seyrig) rassetta con ordine maniacale. “ Je fais de l’art avec une femme qui fait la vaisselle” (faccio arte per mezzo di una donna che lava i piatti). Dichiarazione di perentoria lungimiranza se di lì a poco l’autrice dirà nell ’ intervista: “ C’est comme une tragedie antique ”.

Dilatazione temporale, nulla la recitazione, litania di gesti ripetitivi, il film diventa un dispositivo visuale che indaga gli oggetti nel loro manifestarsi con l’evidenza fisica che è segno del loro esistere. Siamo evidentemente dalle parti di Ozu e della sua macchina fissa, ma nell’aria vibra una nota diversa.
Il cinema di Ozu acquieta, il nulla è il suo obiettivo, il tempo è pacifica contemplazione dei recessi di un dramma che si sviluppa in una rassegnazione contemplativa ai dolorosi cambiamenti della vita.
Nel cinema di Akerman c’è invece attesa e inevitabile deflagrazione. Appunto come nell’antica tragedia attica.

Tensione sottocoperta, il tempo scorre lento come in effetti accade nella realtà, la catastrofe finale si prepara in silenzio. Sentiamo che l’ansia s’insinua in quegli interstizi fra un gesto e l’altro che Jeanne non riesce a riempire di faccende, e allora si butta come un manichino su una poltrona e guarda fisso davanti a sé:
È un film sullo spazio e il tempo e il modo con il quale lei organizza la sua vita in maniera di non avere tempo libero, per non essere sopraffatta dall’angoscia e dall’ossessione della morte”, spiega la regista, anche se è tutto così esplicito, così in linea con uno sguardo sul mondo che punta ogni volta all’osso, scarnificato da ogni residua e illusoria sovrastruttura.

Alla catarsi si arriva con il sacrificio rituale, dunque suicidio o omicidio, comunque morte.
L’anonima ragazza di Saute, ma ville, Jeanne Dielman e, infine, lei stessa, Chantal Akerman.

Improprio pensare al lavoro di Akerman in chiave femminista. Quanto a riferimenti di genere, ricordiamo la sua ferma opposizione alla proiezione di film come Je, tu, il, elle all’interno di festival di cinema gay-lesbico. Sarebbe riduttivo e ingiusto nei riguardi di un’opera che abbraccia con un unico sguardo la verità profonda della condizione umana. Se in Ozu l’approdo alla consapevolezza esorcizza l’assurdità del vivere ed evita la sconfitta, per Akerman, figlia di altri tempi e di altre storie, piccola ebrea di una diaspora infinita ai confini della vita, la fine non può essere che il rifiuto, dunque la morte.

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