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Sheytan vojud nadarad (There Is No Evil) di Mohammad Rasoulof – Berlinale 70 – Concorso: recensione

Dopo Panahi, anche Rasoulof vince l’Orso d’oro in contumacia: il suo è un film solido, morale ma soprattutto politico.

Orso d’oro tedesco, con pelle persiana, questo There Is No Evil presentato buon ultimo in concorso e così incisivo da sbaragliare qualsiasi pronostico. Tedesco per produzione ma anche per stile: Rasoulof ricorda più Henckel von Donnersmarck che il collega Panahi, col quale da quasi dieci anni condivide l’angosciante quotidianità di persona non grata agli occhi del potere.
Dopo numerose partecipazioni a Cannes, in Un certain regard, Rasoulof fa quindi il grande salto collocandosi nella rosa dei Makhmalbaf, dei Kiarostami, dei Farhadi (lanciato proprio a Berlino nel 2011).

Non sorprende che Sheytan vojud nadarad abbia visto l’assenza del suo autore sul palco del Berlinale Palast, sostituito dalla figlia Baran – protagonista del quarto episodio e fluente in tedesco, elemento importante anche nella sceneggiatura. Il tema del film è infatti la pena capitale, o meglio la sua esecuzione da parte dei soldati di leva.

Sulla scorta di questo filo rosso, Rasoulof imbastisce un racconto morale sulla resistenza al potere, declinandolo in quattro episodi che affrontano l’argomento da punti di vista diversissimi. Senza rivelare nulla della trama, la prima metà del film ha un’energia rara, che si esplica nella costruzione impeccabile dell’episodio iniziale e soprattutto nel secondo, da applauso, che dal buio soffocante delle prigioni si conclude sulle colline rocciose di Teheran all’alba, un panorama più americano che iraniano agli occhi dello spettatore medio.

Pur mantenendo il rigore narrativo dei primi episodi, munito ogni volta di un colpo di scena inesorabile, “Compleanno” e “Baciami” sono meno potenti, complice forse l’approccio indiretto al tema del film.

Rasoulof impone la propria voce nei momenti in cui i personaggi vanno in crisi, s’imbambolano al semaforo, afferrano un sasso melmoso senza decidersi se usarlo o meno. Non solo: l’arma segreta del film sono i momenti di festa, improvvisi e solo all’apparenza stonati, che aggiungono spessore proprio sabotando il tono drammatico imperante.

Da questo punto di vista fa piacere riascoltare Bella ciao nella versione di Milva, anche se Parasite ci ha già abituati alla proiezione globale di Gianni Morandi.

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