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A Blast di Syllas Tzoumerkas: la recensione

È un film aggressivo, A Blast, l’opera seconda del greco Syllas Tzoumerkas. Non solo per il modo in cui una vicenda intima, giocata tutta all’interno di un microcosmo familiare e sospesa tra doveri, aspirazioni personali e frustrazioni quotidiane, diventi simbolo di una nazione allo sbando, stritolata dalla crisi economica. L’aggressività sta anche e soprattutto nelle scelte del regista, nell’insistere su una regia marcata che pedina i personaggi, li segue assecondando le loro azioni e le loro gesta compulsive. Non esiste uno scarto, una visione distante e oggettiva. Proprio perché la condizione della protagonista Maria è la condizione di tutti e, nel metterla in scena, non possono esserci filtri.

Se è vero che dalle macerie spesso l’arte si rigenera, il cinema greco sta vivendo una nuova stagione. Scomparso il padre (Theo Angelopoulos), la nuova generazione di registi ha aperto una fase di realismo che riflette il disorientamento collettivo dovuto alla crisi totale di un sistema (l’esempio più significativo è Miss Violence di Alexandros Avranas). A Blast si iscrive a pieno titolo a questo filone. Film di primi piani, di dettagli, di sfondi sfuocati privi di prospettiva, così come priva di prospettiva è la vita di Maria, una ragazza greca madre di tre figli, innamorata di un marinaio, con una sorella fidanzata a uno stolto simpatizzante di estrema destra, una madre paraplegica e un padre remissivo, figura ombra di una famiglia che gestisce un piccolo mini market. Maria si laurea in Legge ma rinuncia alla carriera per aiutare la famiglia nella gestione dell’attività commerciale. Ma la crisi economica e i debiti travolgono la stabilità della donna e aprono squarci inquietanti sulla sua vita.

È come se Tzoumerkas poggiasse un dito sul castello di carta della sua nazione. Basta un po’ di pressione e tutto crolla, lasciando solo le macerie di vite sospese e rovinate. Una corsa verso la dissoluzione che travolge Maria e il suo mondo e che il giovane regista greco analizza con occhio cinico e crudo, recuperando il discorso già avviato con il suo primo lungometraggio, Terra madre, che affronta tematiche simili. Dietro la falsità delle apparenze si cela un mondo di viltà, di bugie, di rancori che Maria svela con disperazione, non accettando la realtà delle cose ma cercando una vacua ribellione che poggia sulla sua nuova consapevolezza. La famiglia si sfalda, l’amore nasconde insopportabili menzogne, i debiti soffocano l’orizzonte di Maria il quale, gradualmente, proprio come nella scena finale, perde consistenza, si confonde, finisce per essere appiattito sul primo piano della donna.
La soluzione finale, inevitabile e consueta, è quella della fuga: una fuga frenetica e illegale, amorale e disperata. Una fuga verso il niente, verso una strada senza via d’uscita, verso un futuro che non permette sogni e illusioni. Come la Grecia, terra splendida e fragile che non trova la forza di ripartire.

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