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Che strano chiamarsi Federico di Ettore Scola a Venezia 70: la forza della memoria

Il racconto di un’amicizia fra artisti è sempre qualcosa di speciale, è entrare in un mondo a parte e sedersi a guardare lo spettacolo.

Fuori concorso a Venezia 70, film-ricordo che racconta l’artista e l’uomo, la sua Roma, i set dei due registi, gli attori, i luoghi e i momenti di una grande amicizia, il titolo, Che strano chiamarsi Federico, arriva da una poesia di Federico Garcia Lorca: Entre los juncos y la baja tarde / ¡qué raro que me llame Federico!

L’ottantaduenne Scola, da dieci anni lontano dal set, trova la generosa spinta a condividere con il pubblico un prezioso archivio privato di ricordi ed emozioni, ma vuol sottolineare: “… questo non è un film che somiglia a quelli che ho già fatto e l’ho fatto perché non è un film e non è un documentario. Posso dire che è composto da angoli non necessariamente consequenziali o in ordine cronologico, ma sono i luoghi di alcune emozioni provate durante quasi 50 anni di conoscenza con Federico”.

A due mesi dal 31 ottobre, ricorrenza della morte del regista, Scola trova la forza che solo imprese in cui si crede fino in fondo concedono, e porta a Venezia quella particolare gioia del raccontare e del ricordare che lo unì a Fellini in un’amicizia di quasi cinquant’anni.
Dalla loro conoscenza iniziata al Marc’Aurelio, giornale satirico dove Fellini arrivò a vent’anni con la sua cartella di disegni e storie sotto braccio, fino al quinto Oscar, quello alla carriera, nell’anno del suo settantatreesimo e ultimo compleanno (1993), senza soluzione di continuità la vicinanza umana e artistica fra i due registi rinasce come libera ricostruzione di un vissuto conservato in un archivio mentale lucido e vivissimo, capace di trasmettere al pubblico la stessa emozione di un tempo, quando nelle sale arrivavano i loro film e le stagioni del cinema italiano vivevano una meravigliosa età dell’oro.

Sfilano così gli incontri notturni dei due amici nelle strade e nelle piazze di quella Roma amata da Federico come una grande madre: “Vivere a Roma per me è partecipare a questa danza della vita che mi obbliga a fare cinema.- diceva il regista – Io vivo a Roma, e poichè non sono nato qui, non desidero lasciare questa città. Vivere a Roma è fare cinema in continuazione, e non provo gioia da altra madre che non sia Roma. Questa immensa pancia placentaria è la madre profonda e nutriente che evita le nevrosi. Mi basta andare in strada per contemplare la pellicola della vita.”
(F.Fellini rispondendo a S.E.Ardanaz in “Si me preguntaran què es una pelicula, tendrìa que decir que no lo sé”, Diario 16, 24 febbraio 1983).

Ed ecco il madonnaro (Sergio Rubini) raccolto a Piazza Navona per una di quelle interminabili passeggiate notturne in macchina in cui Fellini sequestrava gli amici per fargli compagnia nella sua insonnia; ecco far capolino la prostituta che sembra Cabiria (Antonella Attili), mentre arriva al completo la redazione del Marc’Aurelio, e sfrecciano intorno a quel tavolo le battute fulminanti  per preparare l’edizione del giorno dopo. E poi arriva Federico, spilungone con la cartella di disegni e le sue storie, e nel ricordo va in scena la famosa “Ma tu mi stai sentire ragazza dei bagni pubblici Cobianchi?”. Arriva Scola, qualche anno dopo, timido e occhialuto, anche lui con storie e bozzetti sottobraccio che il direttore  sfoglia e dice, serio serio: “Questa mi fa ridere” e lo assume.
Sfilano tutti i grandi nomi vivi nella memoria di ognuno, e il grande Maccari e poi Albertone, e Marcello, il suo alter ego, l’attore dalla faccia così qualsiasi da non potergli dare la parte di Casanova, e tanti altri, tanti, una folla che corre a salutare l’amico scomparso, quel “grande Pinocchio che per fortuna non è mai diventato un bambino perbene”. E la gente di Roma, quella per cui ogni Oscar era un premio per loro, per la città intera, che lo abbracciava e che sfilò per tre giorni nella camera ardente a salutarlo.

Incursioni sui set dei rispettivi film, visite a Cinecittà, in quel Teatro 5 che era la vera casa di Fellini, come ricordava anche Tullio Kezich, l’altro grande amico di una vita: “…a lui sarebbe piaciuto andare tutti i giorni a Cinecittà, girare tutti i giorni, gli piaceva…
Tutto ritorna, e si affolla nella memoria, perché conservato da un amico che ne ha avuto gran cura. Testimone della sua ironia, compagno della sua gioia di vivere la vita come se fosse un film, Ettore ricorda Federico con la complicità delle amicizie che la morte non interrompe, cambiano solo i modi del dialogo, che si fa più sommesso e intimo.

Con Federico c’è stata una vicinanza fino all’ultimo giorno, magari ci si telefonava all’alba per dieci giorni di seguito e poi non ci sentivamo per mesi. E così, dopo vent’anni, i due amici sono ancora lì a scherzare e ridere insieme, a parlare di donne, di cinema, della “vita che è una festa”, e allora bisogna giocare, anche quando si è tristi, come Gelsomina che segue felice Zampanò con la sua tromba, in quel grande spettacolo di strada che è la vita.

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