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David Bowie is di Hamish Hamilton: la recensione

Mentre la raccolta “definitiva” di Bowie, intitolata Nothing is changed si è appena affacciata sul mercato, esce nelle sale, solo per il 25 e il 26 novembre “David Bowie is“;  evento speciale promosso da Nexo Digital che segue il percorso museale della mostra allestita al Victoria & Albert Museum di Londra grazie alla guida degli stessi curatori Victoria Broackes e Geoffrey Marsh, lui compassatissimo, lei meno sobria con due orecchini celebrativi in bella mostra.

Insieme ci introducono in un lungo percorso costituito dal ricco archivio di materiali Bowiani, con l’idea di offrire un’interpretazione specifica dell’artista britannico, ovviamente impossibile per il carattere transmediale che il nostro ha rappresentato lungo l’arco di diversi decenni, non è un caso che il vero e proprio incipit del film museale sia legato ad un’affermazione di Bowie che identifica l’arte a partire dalla sua impermanenza: “il suo significato non è necessariamente quello immaginato dall’autore, non c’è nessuna voce che possa dirsi autorevole, ma ci sono solamente interpretazioni multiple

Più che un documentario il film di Hamilton è l’attraversamento di un’area documentale che non viene interconnessa, ci muoviamo tra gli spazi del museo, tra installazioni multimediali, testimoni d’eccezione e alcune sezioni “live” dove su un palco centrale si avvicendano una serie di testimonianze illustri, tra cui quella dello stilista giapponese Kansai Yamamoto, autore di kimono avveniristici, a metà tra spirito della tradizione e visione avanguardistica e che Bowie indossò durante il tour di Ziggy Stardust.

Vengono quindi sviscerati tutti gli aspetti collaterali e complementari alla biografia di Bowie, ovvero tutte quelle discipline, dall’arte figurativa tout court, alla moda, passando per il design e le tecniche di scrittura, che hanno attraversato la carriera di mister Jones dialogando in modo complesso e stratificato con la sua musica.

Tra gli ospiti anche Jonathan Barnbrook, designer e grafico, ideatore della campagna visuale legata al lancio di The Next Day e dei precedenti due lavori di Bowie e riguardo al quale Michele Faggi ha parlato a lungo nella sua ricognizione su Bowie e “lo specchio”, che è possibile leggere da questa parte sul portale musica di Indie-eye.

Se ad un progetto del genere, puramente illustrativo, mancano forse la coesione e le possibilità connettive del documentario, è pur vero che “David Bowie is” contiene alcuni frammenti molto belli tra cui un estratto video dove Bowie spiega il funzionamento del Verbicizer, un software progettato sotto sue indicazioni che consente la creazione di testi casuali generati secondo le leggi costitutive del cut-up Burroughsiano.

Tra i dipinti ispirati all’espressionismo che ritraggono Iggy Pop su sfondi Berlinesi, un ritratto di Mishima realizzato nel 1977, memorabilia assortite, una lettera di Ralph Horton scritta a macchina e diretta a Ken Pitt, manager di Bowie dal ’67 al ’70, che testimonia il cambio del cognome da Jones a Bowie, lo spazio maggiore è occupato probabilmente dai costumi, in rassegna dai primi anni ’70 fino al design per quelli dell’artwork di Earthling, con due momenti centrali rappresentati dal racconto di Kathryn Johnson, assistente dei curatori che fa il punto sull’influenza dello stile Bowiano; e un filmato che testimonia l’atterraggio dell’alieno Bowie insieme al fido Mick Ronson nel palinsesto di Top of The Pops annata 1972, vera e propria meteora mediale che ebbe un impatto non solo musicale, ma anche legato al costume del tempo, in termini sociali, sessuali e identitari, le stesse leve  che David Bowie ancora, in un modo o in un altro, riesce a smuovere.

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