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La vita oscena di Renato De Maria – Venezia 71 – Orizzonti

È un viaggio allucinato e surreale. Una penetrazione nella mente e nei ricordi del giovane poeta e scrittore Aldo Nove. Una realtà distorta dall’eccessivo abuso di droghe, alcol e sesso. La storia di un dramma che si srotola attraverso percezioni alterate, in una soggettiva psicologica estremizzata oltremisura dall’apparato scenico, caricata – è da dirlo – fino all’osceno.

Quello di Renato De Maria sembra infatti un ricorso esasperato a tutto il repertorio di soluzioni visive allucinate, psichedeliche, di derivazione lynchiana o ricalcate direttamente dal Trainspotting di Danny Boyle o dal meno noto ma altrettanto bello Correndo con le forbici in mano di Ryan Murphy, tratto anche quest’ultimo da un romanzo autobiografico, “Running with Scissors” di Augusten Burroughs. Ma La Vita Oscena, a differenza di questi, è invece un film che ci sembra a tutti i costi drammatico, e ulteriormente indigesto e monotono, perché non raccontato con l’edulcorante e intelligente umorismo di un Boyle o un Murphy. Un film che nonostante la sua visionarietà, le sue trovate stranianti e le sue immagini trasgressive resta piatto.

È, insomma, un film di abusi, da quelli consumati da Nove a quelli registici di De Maria. Un’intenzione che risponde senz’altro alla necessità di rendere per immagini il turbamento e la paranoia raccontate dal tormentato scrittore nella sua omonima autobiografia, ma che in definitiva ci risulta sconclusionato, perso in questi esercizi di stile tra l’onirico e il grottesco, in cui si fa sentire l’influsso fumettistico e irriverente della rivista Frigidaire. Si ricorda infatti che De Maria fu anche l’autore di Paz!, tratto dai fumetti di Andrea Pazienza, in cui però queste soluzione surreali risultano ben calibrate con un umorismo brillante e mai ecceduto.

La realtà filtrata dalla sguardo del giovane si palesa per le sue insite incongruenze, le sue bizzarre presenze e la sua imperscrutabile essenza. Il suicidio, più volte tentato e fallito, sembra l’unica soluzione per sfuggire ad una vita in cui l’uomo è incastrato in una continua, ossessiva, ricerca di un qualcosa, che spesso assume le forme artificiali dell’oggetto materiale, di una massa corporea qualunque che colmi l’abissale vuoto esistenziale, e che in Nove si manifesta attraverso la costante eccitazione, il desiderio inappagato, che si degenera in paranoia meccanica. È la ricerca disperata della figura materna persa, incastrato in una fase edipica che lo porta a varcare ogni soglia, fino a raccontarla, con lucida allucinazione, nel suo La Vita Oscena. Sarebbe quindi stato forse meglio limitare queste riflessioni alle semplici pagine del libro, percepirle dalla viva voce dell’autore, senza la mediazione di quell’immenso ed eterogeneo apparato cinematografico che a volte, purtroppo, finisce con lo stravolgere l’opera da cui prende le mosse.

 

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