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L’Hermine di Christian Vincent – Venezia 72, Concorso

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L’ermellino del titolo è la stola indossata nel suo elemento naturale da Xavier Racine, Presidente di Corte d’Assise, mal sopportato da colleghi e sottoposti per il puntiglio e la boriosa professionalitá, ma capace grazie agli stessi “difetti” di controllare da esperto direttore d’orchestra il meccanismo dell’aula di tribunale. Quando, tra i componenti della giuria popolare chiamata a decidere su un caso di infanticidio, ricomparirà la donna che anni prima lo fece reinnamorare della vita, Xavier saprá schiudere la toga per mostrare finalmente l’uomo che la sorregge e vi si sorregge.

A distanza di 25 anni da La Discrete con cui vinse il Premio Fipresci, Christian Vincent torna in Concorso in laguna con un oggetto cinematografico curioso, in bilico per miracolo tra almeno tre sottogeneri: il ritmo classico da commedia di redenzione attraverso l’amore risulta infatti interrotto a tratti irregolari da lunghe e dettagliate scene di interrogatori nel tribunale-arena che di fatto trascinano lo spettatore in un atmosfera da legal drama tout-court.

In questo contesto già ibrido le digressioni sui meccanismi di scelta della giuria, sulle modalità di gestione del processo, sull’umanità derelitta di imputati e testimoni, sulle dinamiche interne tra giurati di etnie ed estrazioni differenti, hanno toni e messe in scena non lontane dal documentario, lasciando in bocca allo spettatore un sapore da cinema verité quasi didattico, da video-inchiesta sull’ambiente e il funzionamento della macchina giudiziaria francese.

Nessuna delle tre anime del film viene messa a fuoco, ognuna abbandobata nel momento in cui sembrava prendere consistenza, lasciandoci con la sensazione che il cineasta attribuisca una certa eleganza all’indefinizione di caratteri, direzioni narrative ed esiti giudiziari.

Dal punto di vista registico, Vincent si contenta così di una non facile gestione dei toni, sempre sorridenti e garbatamente distaccati anche di fronte alle tragedie famigliari, consegnando chiavi in mano il compito di tenere tutto insieme all’istrionismo pacato di Fabrice Luchini, che detta assoli e contrappunti recitativi tenendo in pugno la scena come il suo personaggio fa con l’agone giudiziario. Il risultato é un gradevole bozzetto dai confini labili, simile a quelli dei ritrattisti che lavorano nelle aule giudiziarie, tanto anomalo nella struttura quanto in definitiva poco pregnante nella scelta di non affondare i denti sulla carne messa al fuoco.

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