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Noi e la Giulia di Edoardo Leo: la recensione

“Diciotto anni dopo”, il primo lungometraggio di Edoardo Leo, nasceva originariamente intorno ad una macchina, una vecchia MG Cabriolet che rimarrà centrale nel progetto definitivo sceneggiato insieme a Marco Bonini. In quel piccolo road movie generazionale il veicolo era l’occasione di un confronto sulla propria storia famigliare e sul futuro di due giovani; nel nuovo film dell’attore, sceneggiatore e regista romano è una Giulia 1300 ad assumere una valenza metastorica; l’auto prodotta dall’Alfa Romeo tra il ’64 e il 77 e diventata un simbolo riconoscibile di tutto il cinema “a mano armata” italiano dei primi settanta al pari della bottiglia di J&B, è un riferimento che Leo utilizza ovviamente fuori contesto e che gli serve, come in Diciotto anni dopo, per riflettere sui resti di un’eredità pesante, non solo politica e generazionale ma anche cinematografica.

Con un occhio puntato sulle dinamiche della commedia corale monicelliana; rivista attraverso la lente surreale che attraversa alcune produzioni “frequentate” da Leo, come per esempio Smetto quando voglio ma anche “La Mossa del pinguino”, il bel debutto di Claudio Amendola dietro la macchina da presa per il quale Leo ha scritto la sceneggiatura;  “Noi e la Giulia“, seppur in misura molto più superficiale, sembra desumere l’iperrealismo dei colori e la scelta di alcune ottiche per restituire quel senso di chiusura claustrofobica che in particolar modo nel film di Sibilia erano due delle caratteristiche più evidenti.

I quattro “precari” di ritorno che per avviare un agriturismo rilevano un vecchio casale tra il Lazio e La Campania, filmato in una Basilicata senza asperità, sono descritti da Leo e Bonini accentuando alcune tipizzazioni diventate un campionario famigliare di vizi, debolezze e sclerosie culturali, attraverso più di una stagione della nostra commedia cinematografica.

Il comunista irriducibile (Claudio Amendola), l’ipocondriaco paranoico e vigliacco (Stefano Fresi),  il cazzaro coatto di destra (Edoardo Leo), l’insicuro che non è mai riuscito ad emergere dalla sua medietà (Luca Argentero) fallito come gli altri ma a cui Leo affida il peso di una coscienza narrante, senza modificare il ruolo dello stesso personaggio nel romanzo di Fabio Bartolomei da cui è tratto il film.

A questi si aggiungono la ragazza libera, selvaggia e disorientata (Anna Foglietta), il camorrista con una visione disincantata e lucida della realtà (Carlo Buccirosso) un teatrino tra stato e mafia dove i confini sono molto labili e infine la Giulia 1300, che come  Christine riproduce solo musica di un lontano passato, ma a differenza della Plymouth Fury del film di Carpenter, è una macchina del tempo che ha un ruolo meno inquietante, perché dispensa magia e sogni, è un ponte nostalgico verso il passato, e a un certo punto, con il dettaglio sul cambio ingranato, mentre la scassata combriccola è ferma e “sospesa” in mezzo ad una strada, diventa simbolo di una possibile ripartenza che potrebbe contrapporsi alla resa rispetto ad un paese che non ha più opportunità da offrire.

È tutto molto chiaro nel film di Edoardo Leo e come accade molto spesso nel nostro cinema, l’allegoria rischia di occupare un ruolo ingombrante; non è un caso che in tre film molto diversi tra di loro, come Sei mai stata sulla luna? o il pessimo Si accettano miracoli di Alessandro Siani, la piazza, il borghetto, la fiera strapaesana, e in questo caso gli ospiti danzanti nell’aia dell’agriturismo (il secondo in breve tempo dopo il film di Genovese, dove si rimpiange Castellano & Pipolo) ci conducano in uno spazio tra sogno e realtà molto simile, un desiderio collettivo, espresso anche dalle frasi scritte sui muri del Casale che invitano a staccarsi da internet, e che fanno parte di quel buonismo in odor di retorica, che nel film di Leo sfiora l’apice con i sermoni di Diego, sopratutto quando nel momento della fuga, la voce fuori campo definisce la deriva della sua generazione parlando di mezzi senza corrette istruzioni per l’utilizzo, un concetto che tra l’altro sembra preso paro paro da un film più piccolo ma molto più verace e vitale come La banda del Brasiliano del collettivo John Snellinberg, da cui il film di Leo sembra ispirarsi a più riprese (il sequestro, il riferimento al cinema poliziesco italiano, l’innesto tra generi con la commedia all’italiana a far da collante)

Al netto del solito teatrino, e ci riferiamo alla chiusura del set con segni e simboli al posto giusto, dinamiche corali, l’Italia matrigna, la forza del cambiamento e via dicendo, bisogna riconoscere a Edoardo Leo una forza maggiore rispetto alla media delle produzioni italiane a larga diffusione in termini di ritmo e messa in scena, con la capacità di sfruttare il ruolo di gesti, situazioni e oggetti nel meccanismo combinatorio della commedia, spiace che non ci sia ancora il coraggio di essere ferocemente iconoclasti (la Giulia seppellita poteva esserlo in un certo senso, come rottura nei confronti di un certo modello cultuale che è ormai un disco rotto, ma è un’occasione mancata) rimanendo ancorati ad una simbologia che è appunto tale, con tutti i rischi che comporta, incluso il dover infilarci per forza una  “poetica“, quella da oratorio da cui sembra ormai impossibile smarcarsi.

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