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Nuovissimo Cinema cileno: una riflessione a margine

Escono da una scuola che crede in un cinema come “atto di libertà, seguito da un atto di riflessione”, l’Escuela de Cine de Chile di Santiago, fondata nel ‘95 da Carlos Flores e Carlos Alvarez. E’ il loro unico “manifesto” programmatico, mentre l’ “impulso irrazionale”, seguito da “regressione metodica”, è il loro metodo di lavoro, così definito da Gonzalo Maza, critico e sceneggiatore, nel catalogo della mostra: “Il primo processo serve a superare la paura della macchina da presa;il secondo a rispettarla”.

 Lavorare con il minimo delle risorse, usare il digitale per abbattere i costi, fidelizzare un gruppo di attori così da stabilire con loro una complice collaborazione che lasci spazio a improvvisazione e sinergia, e infine girare, girare, girare. Poi, nel montaggio, fare le scelte necessarie, dare forma al pensiero, plasmare la propria idea di cinema. La riflessione critica può arrivare anche dopo, come a Pesaro, ciò che conta è esprimersi in modo nuovo e farlo da indipendenti, chiudendo con il cinema degli anni novanta, stretto nella morsa dell’ industria e delle logiche mercantili, liberi dalla costrizione di utopie e di anacronistiche militanze, impegnati nella formulazione di linguaggi nuovi e aderenti al presente, serpeggia in tutti una corrente carsica che è terrore di smarrimenti e frane, di perdita. E’ quello che Lelio definisce “tellurico, cinema dell’instabilità”, tipico di un paese in cui gli sconvolgimenti indotti dalle forze della natura o dall’uomo negano ogni volta una stabilità cercata e sempre sfuggente.  L’ultimo quarto di secolo ha visto nascere un Cile nuovo, proiettato nel mondo, teso nello sforzo di sanare vecchie ferite e superare quell’isolamento geo-politico che tanto ha scontato in passato.

“La nostra terra somiglia ad una spiaggia gigante con alle spalle la montagna, una lingua di terra fra il mare e le vette della cordigliera, un paese ed un popolo aggrappati ad un angolo del mondo, senza nulla né davanti né dietro” dice ancora Lelio.

Con i tempi nuovi sono sorti nuovi problemi, in tutto o in parte simili a quelli di altre latitudini del villaggio globale, dove non fa gran differenza nascere in Cile o a Nuova Delhi, Singapore o Reykjavik. La generazione dei trentenni non ha visto i carri armati assaltare La Moneda, non ha subito torture e deportazioni, dunque non fa del passato un’icona, ma neppure si propone di ignorarlo. Dimostrando un senso forte della storia, questa generazione riesce a parlare nel modo più diretto di sé in rapporto a quello che la storia recente ha lasciato in termini di sofferenza, cicatrici ancora fresche, ma anche, e soprattutto, maturazione e identità nuove. Nei loro film c’è la vita quotidiana, fatta di rapporti interpersonali, disoccupazione, speranze, paure. Maza parla di “trionfo dell’intimità” e “cinema da appartamento”: piccole comunità famigliari, gruppi di amici o aggregazioni nate dal caso formano il nucleo di storie/non storie che ruotano intorno alla centralità fisica dei personaggi, osservati mentre agiscono in spazi limitati,ben definiti, non però claustrofobici.

Sono piccoli pezzi di mondo che si animano mentre la macchina ne registra il movimento, scruta variazioni anche minime degli sguardi, esplora il dettaglio. La tendenza ad usare spazi chiusi per le ambientazioni è connotato comune al gruppo, anche se non manca l’attrazione verso i grandi orizzonti, come nel magnifico Nostalgia de la luz di Patricio Guzman, un veterano ancora capace di essere autenticamente nuovo nelle straordinarie inquadrature del deserto di Atacama su cui pendono, dall’alto, costellazioni e galassie e dalla terra affiorano vestigia di antiche civiltà e ossa di recenti lager.

Ancora spazi aperti nello splendido Huacho di Alejandro Fernández Almendras, vita di una famiglia di contadini nelle campagne del profondo sud. Tre generazioni messe in scena con singolare scelta di regia, si sfogliano i quattro capitoli come le pagine di un libro, una per protagonista, con stacchi di scena al nero: il nonno al lavoro nei campi, la nonna a far formaggio e venderlo in strada, la nuora in giro fra supermercati e bollette che fa fatica a pagare, il bambino che studia in città e adora la sala gioco.

C’è, infine, lo spazio urbano di Santiago, metropoli sudamericana in cui si può sparire e perdersi, o vagare senza meta come Tristán (Andres Ulloa) architetto investito da un ubriaco e ora privo di memoria, e Christina (Viviana Herrera) povera e giovane donna india dell’entroterra meridionale, individui che il caso mette insieme in un incontro disincantato e vitale. E’ Play (2005) di Alicia Scherson, autrice che ama lavorare nel registro giocoso, conciliando con felice armonia tutti i livelli della rappresentazione, mentre tiene insieme finzione e documento, sguardo sul sociale e il politico, scavo nei legami che la vita intreccia con ordine casuale.

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