Home alcinema Risate di gioia di Mario Monicelli: in un’Italia dove non c’era molto...

Risate di gioia di Mario Monicelli: in un’Italia dove non c’era molto da ridere

Il gran flop al box office di questo film di Mario Monicelli, al tempo penalizzato dall’enorme successo de I soliti ignoti (1958) e La grande guerra (1959) di appena due anni prima, dimostra una sola cosa, e cioè che il cinema italiano godeva, allora, di una salute da scoppiare, se poteva permettersi di snobbare un simile capolavoro. Ma tant’è, e, tralasciando amare considerazioni sulle sorti successive del cinema italiano che, nonostante i superpremi, spesso sarebbe da ricovero coatto, godiamoci queste Risate di gioia che la scelta lungimirante della Cineteca di Bologna ha riportato all’antico splendore, collocandolo fra i dieci capolavori degni di restauro che in questi mesi si stanno avvicendando nelle sale d’Italia.

Anna Magnani e Totò, con un Ben Gazzara giovanissimo e belloccio da non credere a far da terzo nel gioco di squadra, basterebbero come credenziali, anche se dietro la mdp ci fosse l’ultimo dei registi nostrani. Ma c’è Monicelli, il boss indiscusso della commedia all’italiana dei tempi d’oro, gigante in un tempo di giganti del cinema, capace di accettare un soggetto rifiutato da Comencini, tratto da due romanzi brevi di Moravia, e farne il gioiello che è, complesso e leggero, orchestrato con maestria superba, un film che ancora oggi fa ridere le platee, le commuove quel tanto che basta, le costringe a riflettere su quel che eravamo e, forse, siamo ancora.

Fine anni Cinquanta, inizi anni Sessanta. La gente vuol dimenticare la guerra, il razionamento, le sirene dell’allarme antiaereo. Sta esplodendo quel boom che sconteremo qualche decina di anni più tardi, ma in quegli anni la vita doveva pur ricominciare. Nonostante tutto, nonostante i mali ci fossero ancora tutti.

Senza questi elementi, fame, morte, malattia e miseria noi non potremmo far ridere, in Italia.”

Questo diceva Monicelli, e come il grande teatro di Eduardo nello stesso giro di anni, il suo mondo si popolò di povera gente che tirava a campare, i perdenti di professione, quelli destinati ad essere sempre tredicesimi nel posto a tavola. E’ proprio questo superstizioso terrore popolano, essere tredici a tavola, a dare il via alla notte di Capodanno di Gioia Fabbricotti detta Tortorella (Anna Magnani), una generica di Cinecittà che vive da poveraccia in un penoso quartierino della sterminata periferia romana, con un vecchio padre asmatico e brontolone. Sul set stanno ultimando le riprese di un peplum, genere in gran voga in quegli anni, che diede da mangiare a masse consistenti del sottoproletariato urbano. Tutti schierati, la Magnani in prima fila che litiga col ciccione dietro di lei, devono inneggiare a braccia levate alla gloria di qualche console romano di cartapesta.
Monicelli si diverte parecchio su questa scena. A partire dal regista sul suo scranno, cappotto cammello, sciarpa bianca ed evve moscia, non risparmia nessuno e gira uno spassosissimo film nel film. Ma è la sera di San Silvestro, tutti vogliono finire al più presto per scappare a festeggiare, e così, mentre si rivestono, una collega invita Gioia al cenone con il suo gruppo. Sono in tredici e Gioia torna utile per fare quattordici, di certo non ha un cane che la inviti. Naturalmente l’amica tace su questo particolare, sarà lei a scoprirlo, ma molto più tardi, quando non serve a niente saperlo, è solo un altro scalino nella scala delle sconfitte. Parte dunque da qui la notte bianca di Gioia, dalle risate che difficilmente potrà fare, a cominciare dalla buca che le daranno perché, nel frattempo, il gruppo è sceso a dodici causa malattia di uno di loro. (continua nella pagina successiva…)

Exit mobile version