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Sogni di gloria di John Snellinberg: la recensione

 È un cocktail gustoso quello che il collettivo John Snellinberg offre al suo pubblico con Sogni di gloria. Personaggi e situazioni al limite del surreale, animate da quella tipica comicità toscana, goliardica e dissacrante, unita ad una colonna sonora che rimanda invece al cinema cult dei poliziotteschi italiani anni ’70.

Un connubio efficace, il cui materiale di ispirazione è rintracciabile in quelle produzioni toscane anni ’80, da “Berlinguer ti voglio bene” ai personaggi tragicomici dei film di Francesco Nuti; ma anche nella fondamentale collaborazione con i Calibro 35, ormai esperti nel recupero di quel sound tra funk e jazz  che rinvia immancabilmente alle pellicole di Lenzi, Di Leo, Castellari e tutta una generazione di cinema di genere. Uno stile ed un’estetica che prendendo corpo da questi due livelli, trova una spinta di rinnovamento.

Il film è strutturato in due episodi; due spaccati di vita sociale italiana contemporanea: vite precarie, sospese, vuote, afflitte da dubbi e incertezze, vaganti in un contesto quasi alienante.

Il Giulio del primo episodio è un indolente cassintegrato preso da dubbi esistenziali in farsesche situazioni, dove la fede religiosa e la necessità di sperare in una vita oltre la morte coincidono con la speranza di ritornare a lavorare, di raggiungere una stabilità. Mentre il Giulio del secondo episodio è un ragazzo cinese combattuto tra la possibilità di ritornare nel suo paese, dove troverebbe un lavoro sicuro, e il desiderio di restare in Italia, autocondannandosi alla precarietà.

Quello dei due protagonisti si configura come un percorso di formazione, tra folgorazioni sul senso dell’esistenza e rifugio in piccole realtà. Dal barcamenarsi tra insensate burocrazie e vacui cerimoniali religiosi del primo Giulio, all’incontro mistico con un bizzarro guru della briscola del secondo Giulio.

Il gioco delle carte, nel buio contesto del circolo, funge in entrambi gli episodi come punto cardine dal valore filosofico. Se infatti nel primo viene fatto notare come “nel passato la gente si riuniva qui e mentre giocava a carte parlava di politica, ora invece mentre giocano a carte parla di carte”, a sottolineare una certa perdita di ideali, nel secondo invece il gioco assume un valore quasi spirituale, in cui un divertentissimo Carlo Monni veste i panni di un esperto giocatore che aiuterà il cinese Giulio a conoscere se stesso attraverso il gioco delle carte, proprio come un sensei nostrano che guidi il giovane e straniero neofita all’antica arte italiana della briscola, della scopa e del tresette; una geniale citazione parodistica di Karate Kid.

Il collettivo John Snellinberg ci dimostra come altre vie alla commedia siano ancora  possibili in Italia,  con un cinema che restando indipendente riesce a sperimentare con furia e passione, muovendosi abilmente tra passato e futuro. Un nuovo sguardo, lucido e spassoso, sulla realtà insomma, con la capacità di aprire una finestra sulla condizione sociale italiana senza scadere nel tragico a tutti i costi, ma trovando invece nelle surreali e strampalate situazioni una via preferenziale per arrivare al cuore e meglio raccontare i dilemmi che affliggono oggi l’individuo.

 

 

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