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The Cut di Fatih Akin – Venezia 71, concorso

Tra il 1915 e il 1916, mimetizzato tra gli orrori della Prima Guerra Mondiale, ha avuto luogo lo sterminio programmatico da parte dell’esercito Ottomano di oltre un milione e duecento armeni, praticato attraverso la deportazione in campi di lavoro, sfiancanti marce forzose nel deserto d’Anatolia e brutali esecuzioni sommarie, inscritte nel disegno più ampio del Medz Yeghern, “Il Grande Crimine”, come la persecuzione pluridecennale da parte dell’Impero viene definita dallo stesso popolo armeno. In Turchia il genocidio non è stato riconosciuto dalle autorità (persino in ambienti accademici permane una coriacea fazione negazionista) e ancora le pellicole dedicate all’argomento si contano sulle dita di una mano.

In conseguenza ad una tale sproporzione tra portata della tragedia e racconto della stessa, la sola scelta di girare un film come The Cut risulta degna di nota, specie se, come nel caso di Akin, viene presa da un regista di origini turche e nazionalità tedesca (la Germania, alleata agli Ottomani nel Primo Conflitto, è stata tra i principali fiancheggiatori del genocidio). Un film di valore storico-sociale non può però far meno della sua componente artistica: è tramite il medium cinematografico che si presenta al pubblico e anche in quel merito va giudicato, a maggior ragione nel contesto del Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia.

Con ordine: Il popolo armeno trova qui la sua incarnazione nell’arrotino Nazaret Manoogian, interpretato da un monocorde Tahar Rahim, allontanato (questo il “taglio” del titolo) dalla famiglia con la scusa della leva obbligatoria e costretto ad una disumana via crucis che lo priverà degli averi, degli affetti, della Fede, dell’uso delle corde vocali, ma mai della speranza cocciuta di rimettere assime i pezzi di una famiglia quasi del tutto disintegrata. La prima parte del film, inondata del giallo pietroso del deserto turco, descrive i supplizi e la miseria a cui il popolo armeno viene sottoposto, ai quali il protagonista sopravvive grazie alla solidarietà tra vittime, non a caso spesso ritratti in fitti capanneli nei campi lunghi, e l’insperata misericordia di disertori e civili turchi.

In questo senso l’accoglienza nella casa-rifugio di un generoso saponificatore di Aleppo ha il sapore di ritorno alla civiltà e della riappacificazione con una cultura fino ad allora ostile. Ma l’elemento desertico torna nella seconda e preponderante parte del film, nell’interminabile pellegrinaggio di Nazaret intorno al globo nella speranza di riabbracciare le figlie: si tratta in questo caso di innevate praterie americane, inospitali e intrise di razzismo, e hanno funzione mostrare l’ampiezza planetaria della diaspora armena.

Dal punto di vista drammaturgico, The Cut, non abbandona mai la dimensione della didascalia: ogni battuta è sottolineata da un gesto, ogni evento mostrato è anche insistentemente riportato a voce, ogni sequenza viene messa in scena con canonicissima alternanza tra larghi e stretti, campo e controcampo, e sottolineata da una colonna sonora smaccata e invadente. Soprattutto, nella manichea divisione tra buoni e cattivi si raggiunge la misura massima dell’introspezione dei caratteri, e persino nel protagonista sempre presente e vessato dagli eventi si riesce a scorgere poco più di un inasprimento interiore. Non manca un omaggio al mezzo cinematografico, nella scena della proiezione pubblica de Il Vagabondo di Chaplin, ma il parallelo tra il linguaggio muto di Charlot e la condizione di Nazaret pare cadere nel vuoto, lasciando spazio ad una più immediata empatia per l’allontanamento dai propri cari.

Ciò che può essere attribuito agli intenti didattici e testimoniali del film, scritto dal regista insieme a Mardik Martin, gloria di Hollywood di origine armena, non redime del tutto una sconcertante piattezza formale, capace di slavare il dolore rappresentato nella routine di una narrazione scontata. La natura del soggetto e l’impianto nomadico dell’intreccio non aiutano ad esaltare le caratteristiche del cinema di Akin, che ha sempre trovato nel vitale confronto di caratteri la propria forza motrice, rivelando nella forzata assenza di essi un cura della messa in scena quasi approssimativa. La scelta, un po’ desueta, di far esprimere in inglese tutti i personaggi armeni può essere imputata alla natura internazionale della coproduzione europea, la quale però rivela una preoccupante approssimazione in alcuni reparti tecnici, dal progetto grafico alla ricostruzione delle location. Akin in definitiva presenta in concorso un lavoro che concentra la sua rilevanza nel fatto stesso di essere stato prodotto, non dimostrandosi però capace di esprimere un discorso autoriale o perlomeno una messa in scena capace di restituire adeguatamente l’enorme portata emotiva del soggetto.

 

 

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