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The Grand Budapest Hotel di Wes Anderson: la recensione

Ogni film di Wes Anderson è un libro illustrato: sfondi gravidi di dettagli, figurine buffe che si muovono da uno scenario all’altro come in un videogioco a piattaforme. La macchina da presa agevola questa fruizione ludica ed esplorativa ricorrendo all’ormai classica sintassi wesandersoniana: improvvise panoramiche a novanta gradi (whip pan), carrellate illustrative, zoom ironici, stop motion. The Grand Budapest Hotel non fa eccezione, anzi, ci si può immaginare il capitolo dedicato al film nella prossima edizione del colossale, orgasmico tomo The Wes Anderson Collection di Matt Zoller Seitz, must di cellulosa per tutti i fanatici del fanatico, altoborghesissimo, ossessivo autore texano di Rushmore e Steve Zissou

The Grand Budapest Hotel non fa eccezione, no. Si apre come un libro, e i primi minuti sono un gioco di scatole cinesi indietro nel tempo. Ci troviamo oggigiorno (o giù di lì) nello staterello mitteleuropeo orientale di Zubrowka, dove una ragazza si reca al cimitero per rendere omaggio all’«Autore» per eccellenza della nazione, che con un primo salto temporale nel 1985 conosciamo di persona. Tra le sue fatiche c’è anche il Grand Budapest Hotel, e il flashback successivo ci scaraventa nel 1968, tra le sale semideserte e tremendamente arredate (il peggio di quegli anni, oltretutto in versione socialista) dell’albergo sito a Nebelsbad, tra i monti. Il futuro Autore, allora direttore dell’hotel, incontra Zero Moustafa, l’uomo più facoltoso di Zubrowka, che lo invita a cena e gli racconta la sua vita da quando, umile fattorino, entrò al servizio del concierge Gustave H nel lontano 1932.

Il film vero e proprio, diviso in cinque capitoli, inizia qui. E prosegue, rocambolesco, per un’ora e mezza di puro godimento, senza cali di tensione e soprattutto senza mai trasformare il delizioso in stucchevole, il geniale in pretenzioso. Riuscendo persino a introiettare alcuni elementi nuovi nel cinema di Wes Anderson. A cominciare dal ruolo della famiglia: in The Grand Budapest Hotel i protagonisti non appartengono a un clan disfunzionale, bensì, come Zero Moustafa… partono da zero. Sono soli, o con un passato traumatico dal quale li separa una netta cesura. L’unica famiglia biologica è quella dei villain, tutti di nero vestiti, tra i quali spicca un Willem Dafoe che sembra riprendere il ruolo di Max Schreck virandolo alla nazisploitation postmoderna. Basti dire che appartiene alle ZZ (Zig Zag Divisions), versione favolistica delle SS. Un altro elemento originale è lo spunto letterario del film, dichiarato in apertura dei titoli di coda: nientemeno che Stefan Zweig e il suo «Mondo di ieri», incarnato dalla figura affettata e ribalda di M. Gustave (Ralph Fiennes al suo meglio). Zubrowka è molto di più di un semplice teatrino per scorribande a firma Wes Anderson: è un universo mitteleuropeo come l’avrebbe immaginato Erich von Stroheim, un mondo orgoglioso al tramonto, minacciato dalla guerra e destinato a restare nella memoria di pochi, nei libri. A sottolinearne la carica evocativa, gli esterni mozzafiato girati a Görlitz (tutto il resto, a Babelsberg).

Se tutto questo non bastasse, c’è il cast. Sconfinato, impeccabile, calibrato con tale cura da evitare camei e comparsate: neanche da questo punto di vista la pellicola scantona nella strizzata d’occhio. Vale la pena citare almeno il «novellino» Tony Revolori, vero protagonista del film, che parrebbe quasi la reincarnazione araba di Kumar Pallana, il celebre Pagoda dei Tenenbaum venuto a mancare nel 2013. Revolori e Fiennes formano una strana coppia irresistibile, a tratti commovente.

Infine, i dettagli. Gioia per gli occhi e per le sinapsi, e tutti funzionali alla narrazione. Uno solo, a mo’ di assaggino: un quadro seicentesco di un fantomatico maestro fiammingo rubato e sostituito con quello che parrebbe uno Schiele e invece, scorrendo i titoli di coda, è un’opera di Rich Pellegrino: Due lesbiche che si masturbano. In due parole, come dire(bbe il Mereghètti), The Grand Budapest Hotel è un capolavoro.

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