Home festivalcinema Under the Skin di Jonathan Glazer a Venezia 70: l’occhio alieno

Under the Skin di Jonathan Glazer a Venezia 70: l’occhio alieno

Jonathan Glazer ha una ridotta filmografia alle spalle, Sexy Beast, pulp post-moderno di discreta fattura, e il più interessante Birth, noir metafisico interpretato nel 2004 da Nicole Kidman oltre ad  un numero più nutrito di videoclip, diretti nell’arco di una quindicina d’anni, dal 1995 in poi.

Tra i numerosi promo musicali diretti per lo più per notissimi artisti britannici, ci interessa quello di Karma police, girato nel 1997; ci interessa perchè Under The skin, il difficile e accidentato adattamento che Glazer ha realizzato a partire dal noto romanzo di fantascienza scritto da Michel Faber all’inizio del secondo millennio, è forse il film più vicino alla sua attività come autore di videoclip, la cui sintesi espressiva è probabilmente ben rappresentata da quello girato per i Radiohead.

Introdotto dal lungo viaggio di allineamento di una retina e da alcuni elementi auditivi che sembrano alludere ad una pratica di apprendimento del linguaggio, Under the skin irrompe quasi subito dopo in un limbo bianco, dove il cadavere di una donna appena recuperato da un fosso, viene spogliato da una Scarlett Johansson completamente nuda, pronta a vestirsi con gli indumenti della defunta. Anche se rispetto al romanzo di Faber, Glazer procede per sottrazione, eliminando molti dei riferimenti iconici, simbolici e narrativi presenti, sceglie comunque, in questi primi quindici minuti, il tono di una certa fantascienza filosofica degli anni ’70 (Kubrick, Roeg, Lucas, Trumbull, Saul Bass) che in qualche modo definisce il contesto attraverso una riconoscibilità specifica; ovvero mentre toglie informazioni narrative, riducendo praticamente i dialoghi a zero, sceglie un’introduzione forse più visiva che visionaria, immediatamente riconducibile ad un decòr science-fiction.

Da qui in poi, i lunghissimi peregrinaggi di Scarlett Johansson  in macchina, per le strade di Glasgow, e in contesti urbani isolati, alla ricerca di uomini soli da adescare e condurre in un ennesimo spazio-limbo dove verranno misteriosamente assorbiti e annientati, probabilmente allo scopo di mantenere viva una struttura molecolare “aliena”, vengono ripetuti in forma ossessiva e frequentativa, come fossero un lungo, ideale piano sequenza alla ricerca di un’esperienza fenomenologica “primaria”.

Più vicina alla necessità del tagliatore di teste di John McNaughton che non al Bowie-alieno di Tevis/Roeg, Scarlett esplora una realtà empirica estranea, con la pupilla dilatata di chi osserva stupito, una nuova realtà al microscopio; dimostrando una mancanza di empatia con il mondo osservato che verrà sostituita progressivamente da un senso ancestrale di paura e di perdita.

Se la visione paranoide di Karma Police era a sua volta un viaggio dell’occhio in due direzioni; una esplorativa, la seconda in fuga dalla propria soggettiva, in un semplice quanto sorprendente slittamento di senso; Under the Skin mantiene questi due movimenti palindromi nelle due metà del film. Quando Scarlett Johansson si perderà in un viaggio conoscitivo non previsto, non solo dovrà fare i conti con una violenza esterna inaspettata, ma guarderà se stessa staccandosi letteralmente di dosso il simulacro umano come se fosse qualcosa in più di una seconda pelle.

Il film in fondo risente di questa duplicità della visione; un primo percorso più selvaggio ed empirico, suggestivamente allineato sulla linea della scoperta del mondo, in una direzione non necessariamente elegiaca, ma sicuramente più vitale e vicina per certi versi alla fantascienza dell’unico film di Saul Bass nel suo approccio documentaristico, o pensando a qualcosa di più recente, al Benedek Fliegauf di “Womb” nella relazione tra corpi e ambiente, senza la stessa forza acusmatica, tanto che sul piano musicale, Glazer ricerca un algido e astratto lirismo espressionista attraverso la musica originale composta dalla giovanissima producer e Dj Mica Levi, che abbandonate le suggestioni “club”, lavora per Glazer su una partitura più classicamente legata all’uso del quartetto d’archi per le immagini in movimento (vari riferimenti, da Bartok a Penderecki); l’altra direzione invece più artificialmente costruita sui modelli di una fantascienza “simbolica” che arena il film in una dimensione meno misteriosa di quel che sembra.

Fatte queste riserve, Glazer rimane un autore da tenere assolutamente d’occhio, ed è interessante come di tutto il film, alla fine, sopravviva con più forza la parte più essenziale, che da un punto di vista emotivo ci riconduce dalle parti di quella relazione primigenia del corpo con l’ambiente, di cui abbiamo parlato in questi giorni scrivendo del nuovo film “survivalista” di James Franco.

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