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Wolverine: la forza immortale dei sentimenti

Il tema della perdita e dell’immortalità diventa centrale nel Wolverine diretto da James Mangold, che fa di questo spin-off una tragica e crepuscolare rilettura dei “generi” in linea con alcuni personaggi del suo cinema, anime che si muovono sempre su un’estrema linea di confine. Sin dall’incipit, ambientato nel 1945 prima del bombardamento nucleare su Nagasaki, Logan incarna il dissidio della coscienza Americana, nel suo percorso ondivago tra strategia della tensione, garanzia di controllo e senso di colpa, in un contesto come quello Giapponese che per il regista Americano diventa, sotto un altro profilo, un percorso obliquo dentro quella specifica storia del Cinema, attraversata dai classici fino agli esempi post-moderni.

Il Wolverine di Mangold è certamente un film sulla mutazione e sulla relazione tra organico e inorganico esaminata da una prospettiva metafisica, come poteva essere Tekkaman, il Mecha d’animazione prodotto dalla Tatsunoko nel 1975, ma con una riduzione di tutti gli elementi “superhero” a favore di una tessitura melodrammatica che diventa il centro emotivo del film. La critica statunitense ha rilevato nel lavoro di Mangold una preoccupante mancanza di centro, e quindi si suppone di controllo, tanti sono i sub-plot e i segni di cui si serve, da quelli del cinema classico giapponese sopratutto nella parte iniziale e in quella centrale della relazione tra Mariko e Logan, fino al crepuscolo degli eroi americani post-vietnam, ovvero il secondo nucleo ambientato nello Yukon, passando per tutto il cinema Giapponese della mutazione, fino ai Cyborg più noti di quello made in USA, dove entrambi gli elementi sono completamente confusi e intersecati negli ultimi venti minuti del film.

In realtà c’è una tenuta potentissima e trasversale tra tutti questi elementi che viene veicolata sia dal personaggio stesso di Logan, vero e proprio Nomade del tempo, destinato ad una relazione dolorosissima con l’eternità e costantemente minacciato da una dimensione extrasensibile, identificata dalla comunicazione oltre il tempo con l’amata Jean Grey; che da una fortissima propensione al melodramma sdipanata nella relazione tra Wolverine (Hugh Jackman) e Mariko (Tao Okamoto) e nel complesso sistema familistico che lega i due, per ragioni diverse, a Yashida, il vecchio e potente industriale a cui Wolverine salva la vita nel 1945.

In questo contesto, e in un modo non del tutto diverso dalla serie Spider-man diretta da Raimi, Mangold mantiene ben saldo il senso della composizione con quella mutazione a vista dello spazio che è anche del melò spinto alla sua forma estrema; la sequenza dove la falsa soggettiva di Mariko, con la mano in primo piano che si avvicina al teatro della lotta tra Logan e il Ronin di Metallo, oppure quella dove le frecce dei Ninja Neri legate ad alcuni tiranti, trattengono Wolverine dal suo percorso in una delle scene più drammatiche di tutto il film, sono solo due dei luoghi di passaggio in cui si muove il film di Mangold, con un senso visionario dello spazio del dramma, in quella relazione tra corpi e oggetti che gli consente di dilatare le sequenze fino all’estremo, senza curarsi troppo delle regole di un franchisee altrimenti votato ad una ripetizione discutibilmente sterile.

Il film di Mangold in fondo, anche nelle poche scene action presenti come quella bellissima sopra il tetto del treno proiettile, mantiene sempre questo disperato equilibrio tra spazio e corpo, con un susseguirsi incessante di scene madri, tenute in piedi dalla potenza invisibile dei sentimenti.

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