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Another Year di Mike Leigh: la recensione

Certe volte «la vita è ingiusta», concludeva il protagonista di Segreti e Bugie, avvolgendo con uno sguardo amaro la sua dissestata famiglia allargata (moglie perennemente sull’orlo di una crisi di nervi, sorella svampita e nipoti sul piede di guerra), ben sapendo che sotto il velo di monotonia che accompagna le nostre esistenze si nascondono spesso frustrazioni e desideri mai sopiti. Non così per i protagonisti di Another Year, Jerri (Rut Sheen) e Tom (Jim Broadbent), che (a differenza del topo e del gatto, loro litigiosi omonimi), dopo decenni di vita coniugale, non soltanto non si sono affatto stancati l’uno dell’altro, ma veleggiano felici verso la pensione, non disdegnano il lavoro (psicologa lei, geologo lui) e trascorrono i ritagli di tempo nell’orto o tra i fornelli, dispensando manicaretti e consigli agli amici in affanno. Quando sullo schermo compare il figliolo Joe, ben presto scopriamo che, come tutti gli altri del resto, adora i genitori e, per nulla al mondo si perderebbe il pranzo della domenica o la raccolta delle carote. All’appello mancherebbe soltanto una fidanzata, ma la ragazza  si presenterà puntualmente in salotto verso fine anno, dissipando anche l’ultima ombra nel cielo senza nuvole di Jerri e Tom.
Se fossimo in un film di Chabrol, da un momento all’altro, ogni fantasmatica tranquillità sarebbe spazzata via da un colpo di scure, la famigliola borghese verrebbe allegramente massacrata, o i protagonisti si perderebbero in un labirinto di menzogne. E invece nulla di tutto ciò nel film di Leigh dove, malgrado lo spettatore, giusto per un po’, nutra il comprensibile timore che la calma sia soltanto apparente (in fondo sono stati proprio i film ad insegnarci che la calma è sempre solo apparente, specie se ci sono famiglie borghesi nei paraggi), fino alla fine non sembrerebbe non accadere nulla. Eppure, a ben guardare, con la consueta maestria, Leigh ci restituisce l’illusione di una vita che si dipana per mutamenti impercettibili, racchiudendo in quattro quadri narrativi (quattro stagioni di un altro anno nella vita di Jerri e Tom) la paradossale stranezza di un’esistenza che riesce ad essere ordinaria, quasi monotona, ma non per questo noiosa.
In un mondo dove tutti paiono alla disperata ricerca di un’ancora di salvataggio, Jerri e Tom, con la loro inossidabile serenità, rappresentano il cielo delle stelle fisse per una fitta e lacrimosa schiera di amici e parenti che, per destino o per pigrizia, possono vantare soltanto l’inettitudine di una vita mal spesa. Mary (Leslie Manville, tanto brava da risultare commuovente), civettuola segretaria tradita dagli anni e dalle bollette, diluisce un’inestinguibile  solitudine in abbondanti calici di vino bianco, mentre i (quaranta) chili di troppo di Ken nascondono la tristezza senza rimedio di un uomo che può contare soltanto su un lavoro che detesta. E poi ci sono i pazienti di Jerri, che hanno lo sguardo vitreo e mesto di chi ha già speso tutte le lacrime a disposizione, o Ronnie, il burbero fratello di Tom, che ha appena perso la moglie e non vede più il figlio da anni.
Leigh sceglie una coppia che qualsiasi altro regista avrebbe relegato sullo sfondo e la colloca al centro di un microcosmo in subbuglio, ove quasi tutti tentano goffamente di svoltare l’angolo, ma si perdono nel mare delle quotidianità piccole (la tragicomica avventura automobilistica di Mary) e grandi (la morte annunciata della moglie di Ronnie), finendo quasi sempre per accontentarsi di un abbraccio e di una tazza di the (birra fresca in alternativa), senza nemmeno poter contare su quella catarsi finale che, in Segreti e bugie, faceva auspicare il preludio di un nuovo inizio.
Il regista, come sempre, ha il dono sottile di saper cercare la verità, cogliendo l’universale nel quotidiano, senza bisogno di didascalie e spiegazioni forzate. Nelle pieghe e nei dettagli, nelle frasi appena abbozzate o nei dialoghi apparentemente casuali, dietro la parvenza di una classica commedia all’inglese, si concentra un intrico di umori e sentimenti che si offre e si svela da sé, evitando ogni forma di moralismo o di facile divagazione. Alla fine, come nella vita, le molte solitudini che popolano il film si scontrano e si incrociano di sfuggita, senza riuscire nemmeno ad intendersi e a capirsi, mentre, come rivela lo splendido piano sequenza finale, anche l’altrui felicità sembra più opaca nello sguardo mesto degli esclusi.

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