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Cocaine – La vera storia di White Boy Ricky di Yann Demange: la recensione

A metà degli Anni Ottanta un quattordicenne diventa un informatore sotto copertura per la polizia locale e per i federali. In seguito soprannominato “White Boy Rick”, il ragazzo si affermò come spacciatore di alto rilievo. I federali posero fine alla sua doppia vita quando, qualche anno dopo, venne trovato con 17 kg di cocaina. Passò il resto della sua vita in prigione

‘Cocaine – La vera storia di White Boy Ricky’ è una parabola di formazione emotiva e psicologica calata in un palcoscenico urbano violento, livido e realisticamente avvilente, lontana dai sentimentalismi, suggestionata da influssi noir e frustata da un pessimismo scevro di appigli addolorati. Una parabola inscritta in un fragile equilibrio fatto di differenti interpretazioni del dramma, declinato ora in virtù dello spaccato sociale ora ai fini della vignetta tragicomica. Non sempre con gli stessi risultati qualitativi o con la stessa intensità comunicativa. È infatti evidente lo scarto presente tra le due decodificazioni creative dell’evento reale, la differenza tra la funzionalità dell’umorismo nero e la debolezza del racconto doloroso.

La comicità ha il pregio di sottolineare l’assurdità della situazione, il paradosso della realtà: i momenti umoristici sono inaspettati e modellano gli estremi da cronaca nera ottenendo un’ilarità scomposta e allucinata che trasmette lo straniamento e immerge ben più delle scelte registiche di prossimità sui volti distrutti e sui corpi sfatti. La direzione drammatica invece è molto meno riuscita, perché il film non trova un punto di fuga chiaro su cui allineare le proprie linee tematiche, sbanda, si confonde e non sa come costruire la gerarchia tematica tra la moltitudine di temi. L’arco drammaturgico del protagonista perde per questo forza in parallelo alla progressione drammatica e soccombe all’incapacità di sintetizzare in una prosa concettuale fluida la rappresentazione di un nucleo famigliare compromesso dalla reciprocità delle colpe e l’indagine sociale a misura individuale; la cartografia di una criminalità ingrugnita e banale e la denuncia dell’ambiguità morale delle istituzioni.

Il risultato è un film svuotato della propria carica tragica, inerte nella gestione di un materiale complesso e intricato, responsabile di una superficialità ottenuta come somma inaspettata dei numerosi errori e salvato in extremis dal lavoro dei suoi attori. Dal debuttante Richie Merritt (interprete di Ricky) e dal navigato Mattew McConaughey (nella parte del padre di Ricky), grazie all’innocenza tradotta in indifferenza del primo e alla mestizia trasformata in affetto del secondo. Il rapporto padre-figlio è infatti, assieme ai sopra citati fulmini comici, l’elemento valido, il segno in grado di esemplificare la storia, la sua evoluzione e il suo significato. È nel campo e nel controcampo degli sguardi e degli insulti amorevoli, nel realismo della retorica dell’insegnamento sbagliato che il film trova un senso e un aggancio concreto a un microcosmo esperienziale altrimenti solo accennato. È solo nell’incrocio negato di sguardi alla fine che Cocaine – La vera storia di White Boy Ricky assume la forza di un’esplorazione psicologica e sociale urticante, commovente. Peccato.

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