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Venezia 65 – Cuvari Noci (Guardiani di notte) di Namik Kabil – Settimana della critica

Cuvari Noci (Guardiani di notte), presentato alla Settimana della Critica, è il piccolo film di esordio del regista bosniaco Namik Kabil (classe 1968), già documentarista e sceneggiatore, prodotto dal Centro per l’Arte Contemporanea di Sarajevo. Per nostra fortuna il film di Kabil ha poco a che fare con il cinema arty, non ha ambizioni elevate e si pone un obiettivo quantomeno apprezzabile: raccontare una storia. O meglio: alcune storie. O meglio ancora: suggerire, a piccoli cenni, frammenti di vita fuori dalle cornici, quotidianamente ossessive, di ciò che è in campo.
Ambientato in un centro commerciale nella periferia della capitale della Bosnia-Erzegovina, nell’arco di una notte, il film segue le vicissitudini di due guardiani notturni, Mahir e Brizla (detto il Bisteccone). Lo scenario asettico del reparto sanitari e l’arredamento delle cucine, delle sale e delle camere fanno da sfondo ad un susseguirsi di situazioni tipo che lasciano intuire una reiterazione senza scampo.
Filmare la noia senza annoiare è il primo, evidente merito di Kabil. La pellicola ben si adegua al ritmo dei suoi personaggi in un piccolo catalogo di gesti giocato su altrettanto piccole variazioni. Kabil si muove con una certa sicurezza nel solco di un minimalismo plumbeo che guarda a Jarmusch e a Kaurismaki (Le luci della sera, altra storia di guardiani notturni). Evita le astrazioni, i movimenti cinematografici centrifughi e la contaminazione coi generi classici che caratterizzano il cinema dei “maestri” lasciando i propri personaggi inchiodati ai problemi di ogni giorno, il proprio cinema ad una piattezza tutta europea – a partire dalla monotona fotografia – che ben si adatta alle figure. Figure che, senza inseguire metafore ardite, ben rappresentano un paese privo di una definita identità ancor più dei non-luoghi periferici che abitano.
La metabolizzazione del dolore attraverso le sofferenze del corpo (forse il tema centrale della pellicola) riguarda certamente le lacerazioni ancora aperte di una guerra fratricida, ma anche le più normali difficoltà quotidiane (la paternità di Mahir). Se la bravura e la naturalezza dei protagonisti evita il rischio (molto prossimo, a dire il vero) che lo sguardo affettuoso di Kabil degeneri in un bonario patetismo è proprio nel mix di reazioni fisiologiche che Kabil evita le trappole di un cinema puramente sociologico, azzeccando qualche bel momento di cinema: il dialogo di Brizla con il poliziotto, nel quale la scrittura libera definitivamente quell’umorismo sottotono e stralunato che domina il film e quello, irresistibile, dello stesso Brizla con i cd del corso di autostima.

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