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Perdizione di Béla Tarr

Al Titanik lavora la cantante (Vali Kerekes) amante di Karrer e sposata con Sebastien (Gyorgy Cserhalmi), donna di bellezza fuori registro in quel mondo desolato, carica di una malinconica sensualità che esplode nel sogno di una vita nella grande città, ma viene dissipata nell’inconsistenza di relazioni precarie e senza futuro. Quella con Karrer è una storia al capolinea di cui lei vuol sbarazzarsi, ma lui si ostina, caparbio, con pedinamenti, appostamenti, preghiere e minacce, fino ad affidare a Sebastien, pur di tenerlo lontano dalla moglie, un affare sporco che ha tra le mani, complice il proprietario del locale. La storia sembra così virare al noir, arrivando perfino a sfiorare l’hard boiled, gli ingredienti ci sono, dal milieu malavitoso alla femme fatale, con l’ambientazione cittadina e le vite torbide dei frequentatori del bar a fare da corollario. Ma a Tarr non interessa rientrare in un genere quanto piuttosto declinare, in uno dei tanti modi possibili, l’incapacità dell’uomo di socializzare, di creare legami forti e duraturi, di dare un senso alle cose. Karrer che cammina senza meta, spesso ripreso di spalle sotto la pioggia che rimbalza su quelle strade vuote, un impermeabile vestito da uomo, si direbbe, è lo sguardo immobile e definitivamente prosciugato dell’uomo che sa l’inutilità della sua presenza nel mondo, ma non conosce “la silenziosa gioia di Sisifo: il destino gli appartiene, il macigno è cosa sua” (A.Camus, 1942) Karrer è l’uomo che si è arreso, inerte come una pietra vive la sua contraddizione che lo spinge ossessivamente verso la donna fino a dirle “Ti amo”, perché la sua condanna è lì, continuare a sentirsi vivo pur essendo morto, essere continuamente al limite di sé stesso, uomo in bilico, nessuno a cui somigli. Mersault, lo straniero di Camus, interrompe con un grido catartico il suo silenzio “…davanti a quella notte carica di segni e di stelle, mi aprivo per la prima volta alla dolce indifferenza del mondo”, Karrer no, nulla che lo scuota, il Dies irae che gli recita la guardarobiera sotto la pioggia:

Suonate pure la tromba e sia pur tutto pronto, nessuno si farà avanti a combattere perché il furore mio è contro tutto quel popolo. La spada infierisce fuori delle città e la peste e la fame al di dentro… Li tratterò secondo le loro opere e li giudicherò secondo i loro meriti.Solo allora sapranno che sono io il Signore”

riscuote solo l’attenzione frettolosa di chi sta pensando ad altro, Karrer è impegnato in uno dei suoi assurdi appostamenti alla donna, e così quella specie strana di angelo sempre ripreso da Tarr su fondo chiaro, dal profilo e dallo sguardo che tanto fanno pensare alla mitica Marlene con la sigaretta all’angolo della bocca, conclude:“Vedo che deve andare, non la trattengo oltre”. Inerzia, svuotamento, gelido egoismo, fallimentare ricerca di interazione umana in legami ridotti a pura condivisione di spazio, condanna senza sconti di un mondo che non ha punti di fuga.

“Non avrei mai creduto che in quel corpo esile ci fosse tanto sangue” è tutto quel che Karrer è riuscito a dire all’amante, che sgranocchia biscotti dopo il coito più gelido della storia del cinema, alla fine della descrizione del suicidio della moglie. La pioggia scioglie tutto in fango, dilava i muri, un beffardo tip-tap, che nell’acqua fa cick-ciack, è ballato da un tizio fuori del bar, Karrer si allontana, ora le case sono sparite, resta la funicolare sullo sfondo e una discarica fangosa in primo piano, cani che frugano e abbaiano, Karrer si accuccia, abbaia contro uno di essi, la metamorfosi è compiuta, la comunità primitiva ha ripreso il sopravvento.

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