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Divino Amor di Gabriel Mascaro – Berlinale 69 – Panorama: recensione

“In ogni distopia è incorporata una piccola utopia”; il noto assunto di Margaret Atwood si avvita continuamente nel nuovo film di Gabriel Mascaro. Dal trionfo di luci al neon, fino a quei colori pop che mascherano il volto selvaggio e indomito del Brasile, gli elementi condivisi delle due visioni confondono e scambiano di senso anche la descrizione delle emozioni. Quando si comincia a percepire in modo più distinto un senso di minaccia, questo sembra emergere dalla coesistenza invisibile con la realtà ricostruita in una serie di location artificiali, mentre tendono a spingere verso i margini i conflitti sociali e la relazione dello spazio architettonico con la natura.

Nel 2027 la festa più importante del paese sudamericano non è più il carnevale, ma la celebrazione dell’amore supremo. La voce off che ce lo spiega si estende per tutta la durata del film, parola che annuncia la parola, nuova venuta di un messia.

Joana, burocrate dello stato, cerca di trasformare in un nuovo proselitismo religioso le pratiche di divorzio quotidianamente depositate sul proprio tavolo. Il Brasile laico perde ogni forza a favore di un culto new age conservatore, come se quello contemporaneo ed evangelico di Jair Bolsonaro avesse definito i nuovi confini della società. Ma non è così binaria la lettura di Mascaro, perché le istanze reazionarie del paese attuale, vengono ricollocate e osservate da una prospettiva rivoluzionaria, rispetto alla nuova smart city ossessionata dal controllo capillare dei propri cittadini.

I rischi di una cultura fortemente identitaria e nazionalista, diventano per la protagonista, tensione verso il divino.
Il corpo è il tramite della fede, traduzione di un sentimento purissimo che contrasta con le geometrie razionali degli ambienti, il colosso burocratico che regola nascite e comportamenti e persino la relazione istituzionale con lo spirito, rappresentata da un confessionale gestito come un drive-in, immerso tra luci, ghiaccio secco e gli effetti illuminotecnici di uno spettacolo pop.

Il culto del Divino Amore incorpora tutti quegli elementi tagliati fuori dal nuovo assetto urbano; l’acqua, la terra, una serie di esercizi per sviluppare il senso di fiducia e trovare nuovamente contatto con il corpo altrui, fino al limbo rosa dove le coppie scopano in gruppo e tornano a riconoscersi attraverso il piacere.

Se l’idea di “una burocrazia umanizzata è un privilegio”, Joana desidera e re-immagina il Brasile pluviale e carnale come tentativo di realizzare il disegno di Dio, contro una disumanizzazione che replica l’assetto delle nuove città globali.

L’inversione dei parametri Storico contemporanei serve evidentemente a Mascaro per raccontare le derive del presente, con una tecnica narrativa e strutturale tipica del racconto di fantascienza, affrontato attraverso una sostituzione degli elementi utopici con quelli distopici, prassi che Jameson chiamerebbe “defamiliarizzazione” del presente.

Ciò che rende assolutamente affascinante il viaggio di Mascaro in un Brasile tra possibile e impossibile è lo spostamento della tensione narrativa nell’area di espressione del corpo. Joana non sembra mai minacciata da forze oscure, anche quando il sistema burocratico la sputa fuori dal proprio assetto. Il regista di Recife sposta la gradazione ascendente del racconto,  frenandola e isolandola negli spazi artificiali dove si svolgono gli amplessi, nella pioggia che preme dai vetri opacizzati, nelle luci e nei volumi della nuova città addomesticata, rispetto ai pochi frammenti di architettura modernista, scorci salvifici che sembrano riportarci ad una percezione brutale degli innesti che costituiscono la storia del Brasile. 

Già con “Um Lugar ao Sol”, Mascaro aveva percorso una strada che riusciva a mettere insieme tendenze visuali con un cinema tattile e fortemente legato all’espressione dei sensi, secondo coordinate complesse e determinate dal contesto sociale.  Mentre il discorso sui complessi urbani del Brasile comprende tutta la produzione documentaristica fino a “Ventos de Agosto”, prima opera di finzione, “Divino Amor” sembra confinare la meditazione di “Boi Neon” sulla fluidità del corpo, da umano ad animale, in uno spazio dove le alterità sono bandite. Rimane la forza promiscua del contatto carnale, questa non si fonde più con i colori del paesaggio, come accadeva nel film precedente, ma spezza letteralmente i codici strutturali dell’architettura al potere, come forza infernale inarrestabile che ricerca il divino nel contatto perduto con la terra.

“Divino amor” è un film di costrizioni e rotture, arene sociali anguste e un propellente elementale che non può essere controllato da alcun ordine costituito. 
L’incarnazione del divino allora, anche quella più irrazionale e desunta dalla narrazione evangelica, si rivela nel sangue del parto e fuori dai database ufficiali che controllano l’identità delle nuove nascite. Sospesa in uno spazio di confine, la rivelazione sfugge alla società dell’ipervisione. “Se cresci senza un nome, cresci senza paura”

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