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Federico Fellini, Ciò che abbiamo inventato è tutto autentico, Lettere a Tullio Pinelli.

Bellissimo e divertente questo snello volumetto pubblicato dalla Marsilio, che permette di farsi un’idea di qual’era il carattere e il modo di pensare di uno dei nostri registi più grandi. Le lettere indirizzate da Fellini all’amico e collaboratore di una vita Tullio Pinelli (la corrispondenza ci viene restituita in questa forma univoca per il semplice fatto che Fellini non conservava le lettere che Pinelli gli scriveva, gettandole via dopo averle lette) sintetizzano perfettamente le sfumature di un’amicizia che lo stesso Pinelli definisce nella prefazione “ fraterna, profonda , insostituibile.” Non senza screzi, però: Fellini infatti, attraverso un linguaggio ai limiti dell’infantilismo si svela come un giocatore astuto all’interno del meccanismo-cinema, lucidissimo nel gestire i ruoli e imprimere direzioni, fingendosi distratto al momento giusto. Ad esempio quando liquida con una lettera piena di vezzeggiativi un po’ ruffiani il fatto di non aver nominato gli sceneggiatori Pinelli e Flaiano durante una conferenza stampa sulla lavorazione de Il bidone ( la stessa storia si ripete durante la premiazione a Venezia de La strada, durante la quale il regista ringrazia tutti, fuorché i due collaboratori). Ma la sua strafottenza innocua non irrita forse perché manifesta, autentica, come le lettere che indirizza all’amico, piene di ingenue sgrammaticature e nomignoli buffi (Fellini chiama l’amico vecchio conte, vecchio pinellino,tuglietto ), commenti sulle donne ‘gustose’ incontrate in villeggiatura, sfottò nei confronti di colleghi e amici comuni (Lattuada non si salva e viene definito impietosamente ‘fregnetto’ ) e improvvisi momenti di debolezza, buttati lì, come se niente fosse. Traspare tra le righe scombinate la grossa empatia che unisce i due, la comunione di intuizioni e sensazioni dettata da un immaginario ‘autentico’ condiviso.

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