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Is the Man Who Is Tall Happy? – An Animated Conversation with Noam Chomsky di Michel Gondry: la recensione

Cos’ha fatto Michel Gondry per due anni e passa, nei ritagli di tempo della lavorazione di The Green Hornet e La schiuma dei giorni? È presto detto: passava le serate ad animare col pennarello le sue conversazioni con Noam Chomsky. Il progetto di questo documentario solo all’apparenza strampalato nacque quasi per caso, e si è protratto per molto tempo a mo’ di svago di lusso per il regista di Eternal Sunshine of the Spotless Mind, che a un dato momento ha deciso di accelerarne la lavorazione per il timore – esplicitato nel film: scritto in inglese a penna e letto con un pesantissimo accento gallico – che Noam morisse. Noam nel frattempo non è morto, il documentario gli è piaciuto e a detta di Gondry l’ha visto tre volte invitando nipotini, parenti e amici.

A partire dal 2010, Gondry ha fatto regolarmente visita al linguista statunitense, armato di carta, penna, audioregistratore e cinepresa Bolex 16 mm. Lo ha intervistato più o meno a braccio, e tra una sessione e l’altra ha tradotto in immagini – disegnate a mano, con pennarelli fosforescenti – le amene chiacchierate col teorico della grammatica generativa. Immagini che molto spesso hanno funzionato meglio delle parole per pungolare il pensatore e fargli capire di aver capito. Quanto a Chomsky in carne e ossa, appare ogni tanto nella selva di disegnetti, accompagnato dal chiasso meccanico della Bolex riportata in vita.

Chi si aspetta un documentario organico e militante, che descriva per filo e per segno teorie e modus vivendi dell’anarchico Chomsky, resterà deluso. Il film è altro: intuitivo, raffazzonato (solo in superficie) e tenero come le migliori pagine cinematografiche di Gondry, ma anche limpido quando lascia parlare il filosofo e si limita a trasformare, con una letteralità spiazzante, i suoi concetti in linee colorate. Nell’affrontare un campo sterminato come quello del pensiero chomskiano, il candore di Michel Gondry è perfetto per mettere lo spettatore a proprio agio e neutralizzare la patina seriosa di alcuni concetti accademici a colpi d’immaginario infantile, da quadernetto delle elementari. E quando il regista ha l’impudenza di porre anche domande personali, ad esempio sulla moglie di Chomsky passata a miglior vita, all’imbarazzo e alla reticenza del professore si accompagna una sequenza di disegni che ricorda il finale de L’arte del sogno (2006). Al che si ha la netta impressione che a unire regista e intervistato sia la rara capacità di porsi domande che nessuno si era mai posto prima, oltre alla volontà pazzerella di smontare l’astratto, ravanare nell’impensabile, restare fedele ai sogni.

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