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Kristy di Oliver Blackburn: la recensione

Se non fosse per la produzione esecutiva di Scott Derrickson, probabilmente non ci si sarebbe scomodati a fare i nomi di Carpenter, Romero e tutto l’horror degli anni ottanta per questo piccolissimo film del regista londinese Oliver Blackburn. Riferimenti pertinenti solo se li si osservano attraverso i modi in cui l’universo Blumhouse si riferisce a quel cinema, cercando di ricontestualizzarlo alla luce dei nuovi complessi urbani e imbastendo delle elegie negative sulla fine dei tempi. È un aspetto che a Derrickson interessa sicuramente, tanto da aver affidato la regia dell’imminente Sinister 2 ad un regista come Ciaran Foy che aveva ambientato il suo Citadel in una Glasgow filmata in mezzo ad un grigiore ballardiano e post-apocalittico.
Sarà una suggestione, ma gli outsider di Kristy sembrano provenire dritti da quella suburbia, con tutte le stigmate di una società al collasso, la cui rappresentazione è abbastanza famigliare per chi ha frequentato titoli come Heartless di Philip Ridley, ma anche Ils di David Moreau e Xavier Palud.

Gli spazi vuoti di un campus universitario, l’ambientazione notturna, l’invasione di un luogo apparentemente sicuro che si apre ai pericoli del mondo fuori, il male come entità senza volto, hanno una chiara ascendenza carpenteriana senza alcuna variazione sul tema che non faccia parte di quelle già viste nei film di James De Monaco. A questo assetto, visivo e ritmico, si aggiunge il contrasto tra due immagini dell’America contemporanea, dove quella delegittimata sul piano socioeconomico, esplode come un’epidemia dalle caratteristiche bibliche e viene sintetizzata dal personaggio interpretato da Ashley Greene, davvero sorprendente nell’assumere su di se tutte le caratteristiche della maschera senza profondità, tanto da meritarsi un posto di tutto rispetto nella galleria che da Leatherface passa per Michael Myers, come sembiante che emerge dalla notte e si manifesta con le caratteristiche pre-formali del male primigenio.

Difficile stabilire se lo sfondo cristologico che apre e chiude tutta la vicenda sia un’esigenza della produzione o farina del sacco di Blackburn. La riflessione sul male ha ben altre prospettive nel cinema di Derrickson, basta pensare alla figura di Santino in “Liberaci dal male” e alla sua complessità rispetto all’impenetrabilità del volto di Ashley Greene, più vicino appunto alle maschere del cinema tra i settanta e gli ottanta. Fatte salve queste sfumature, Blackburn punta all’essenziale nel costruire un film dal dinamismo tensivo e cronometrico, giocando moltissimo sull’astrazione di uno spazio comune, trasformato nel suo opposto perturbante.

Spiace che tutto il contesto urbano si riduca a questa claustrofobia old school, tenendo fuori le contraddizioni e le ferite dello spazio cittadino, elemento centrale nell’ultimo cinema di Derrickson e anche qui leggermente alluso da un’iconografia decadente e suburbana, ma che si limita allo street style degli adoratori del male senza andare troppo a fondo.

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