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La buca di Daniele Ciprì: la recensione

È in uno spazio ristretto che si svolgono le vicende di questa nuova commedia di Daniele Ciprì. Un quartiere indefinito, oltre lo spazio e il tempo, in cui il dolly gravita a svelare un luogo che sembra volersi volutamente palesare come pura finzione. Quinte di un teatro o facciate di cartongesso di Cinecittà, in un contesto narrativo che richiama spesso la favola, in cui si susseguono rievocazioni nostalgiche del passato e in cui il racconto si impone, ancora una volta, come potere fabulatorio e costruttivo.

Impossibile non pensare all’incipit della precedente commedia di Ciprì È stato il figlio, che prende corpo proprio dall’onirica voce narrante di un misterioso uomo seduto in un ufficio postale. Così come è impossibile non leggere nelle immagini di quelle palazzine popolari che si stagliano all’orizzonte, oltre il sobborgo irreale, un richiamo a Lo zio di Brooklyn. Una strana combinazione tra l’artificio scenografico esplicitato e lo sfondo realistico, degradato, di una periferia reale.

Se quindi i lavori di Cinico TV riflettevano, in un’ottica pessimistica, su un mondo vuoto, in cui a sopravvivere sono i vacui e ossessivi istinti, nel lavoro di Ciprì senza Maresco, il racconto, la finzione, giunge come mezzo di evasione, rifugio dalla cruda e brutale realtà sullo sfondo.

Non è un caso quindi se l’introduzione alle vicende è affidata ad uno sguardo animale, indagatore imparziale e incorrotto dei due “tipi umani” agli antipodi: il cinico e disonesto avvocato Oscar (Sergio Castellitto) e l’onesto ex carcerato Armando (Rocco Papaleo). Due figure ambigue ma complementari, che anche se mosse da fini diversi arriveranno a percorrere la stessa strada, tra ricorsi giuridici e ricostruzioni di eventi passati, in una chiave narrativa tra il legal thriller e il noir, tra innocenze e colpevolezze.

Il regista palermitano cuce questa commedia in una cornice originale e innovativa; dall’introduzione con disegni animati dei titoli di testa, che ricorda le commedie italiane degli anni 70, fino alla recitazione enfatica e al dispiegarsi delle vicende genuinamente spassose, con una cura fotografica che sembra voler richiamare un surrealismo cartoonesco, e che rende di conseguenza il film accessibile ai target più disparati.

Mentre Franco Maresco con “Belluscone” resta quindi coerente con l’estetica e le idee maturate nel periodo di Cinico in un’indagine spoglia e surreale di temi contemporanei, Ciprì sembra volersi emancipare, approdando a nuovi stili, nuovi linguaggi e nuove storie, in una visione certamente più ottimistica, ma che inevitabilmente allude a delle realtà forse anche più tragiche di quelle proposte da Maresco; lasciandote sottese, sullo sfondo, proprio come le palazzine popolari che Armando osserva oltre la rete e che sembrano appartenere, nella loro fatiscenza, ad un mondo spietato da lasciarsi alle spalle.

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