Home alcinema La mafia uccide solo d’estate di Pif: tra fiction e verità

La mafia uccide solo d’estate di Pif: tra fiction e verità

Pif (Arturo nel film e all’anagrafe Pierfrancesco Diliberto) si guarda indietro e ricorda la prima cotta, a otto anni, a Palermo. Un amore che dura tutta la vita per la compagna di scuola è cosa bella ma non eccezionale, può capitare ovunque in Italia (e forse anche nel mondo). Ma se succede a Palermo il discorso cambia, e così sul tranquillo tran tran della vita di un ragazzino di quarta elementare s’innestano strane interferenze a creare un corto circuito ancor più memorabile della cotta stessa. Già il suo concepimento coincise con la strage di Viale Lazio organizzata da tale Totò Riina nello stesso stabile in cui, essendo condomini, i suoi genitori erano occupati nelle operazioni susseguenti alla prima notte di nozze. Al frastuono dei proiettili sopravvisse un solo spematozoo, e lui fu concepito.

Uscito piuttosto goffamente dall’infanzia, a otto anni Arturo s’innamora follemente di Flora, bionda come una spiga di grano maturo, venuta dal Nord per essere senza tema di confronti la più bella della classe. Arturo, imbranato com’è, non trova di meglio che correre a nascondersi nel bagno della scuola quando l’incrocia, tanto può l’amore. Neanche il padre riesce ad aiutarlo. Quando Arturo gli chiede come ha fatto con la mamma, lui gli risponde: “Al cimitero”. Non è il massimo, al povero Arturo serve altro. Ed ecco che un bel giorno la foto dell’onorevole Andreotti sul giornale, con una delle sue frasi celebri, gli appare come una visione a suggerirgli una strategia vincente. Tradotta nella sua capocchietta di otto anni, gli farà capire come gestire l’assedio e così lascerà ogni mattina a Flora, sul banco, una bella Iris presa al bar vicino, bombolone ripieno di ricotta e cioccolato da far leccare i baffi agli dei.
Il molto onorevole Andreotti diventerà il suo mito al punto da mascherarsi da lui a Carnevale e riempire le pareti di suoi posters, mentre intanto Rocco Chinnici, quel commissario dai baffi infarinati che gli ha offerto la prima Iris, sarà fatto fuori dalla mafia poco prima che si chiuda la scuola, appunto in estate.

Ecco come mai la strada di Arturo con il suo grande amore e quello della mafia nei vent’anni più bui della sua storia cominciano ad intrecciarsi in una delle più surreali, stravaganti, impensabili e tragicomiche rivisitazioni della nostra storia patria, quella che l’ex iena Pif riesce a mettere insieme in un’opera prima di straordinaria simpatia e indubbia verità.
La simpatia è tutta in quel ribaltamento della realtà che agli occhi di un ragazzino la vita spesso produce, per quello spaesamento che i fatti subiscono nell’ottica di chi li guarda. Se poi chi li guarda è un bambino con i suoi piccoli problemi di cuore, allora lo straniamento diventa una simpatica scelta stilistica. Meno simpatica è invece la verità di quelle vicende. Collusioni con la classe politica ed escalation esponenziale del potere mafioso, faide fra famiglie dell’onorata società che insanguinano le strade, nomi illustri dell’antimafia caduti uno dopo l’altro, stragi e maxiprocesso. Vent’anni, anni settanta e ottanta, fino a Falcone e Borsellino.

E finalmente, con le stragi di Capaci e Via D’Amelio tutti si accorsero che a Palermo c’era la mafia”.

Sì, a quel punto non si potevano più chiudere occhi, naso e bocca, la mafia c’era e c’era un potere politico alle sue spalle che ne garantiva l’impunità. C’erano anche martiri lungo la sua strada e bambini che vedevano il mondo intorno a loro come attraverso gli specchi deformanti di un Luna Park, solo che Luna Park non era. Pif compie un’operazione quasi impossibile: fare una fiction e parlare di storia vera, raccontare un percorso di formazione difficile, irto di contrasti e fallimenti e far ridere di simpatia, alimentando il buonumore in una platea che riesce a credere che, alla fine, si possa far qualcosa. Cosa? Sposare la compagna di scuola, far nascere un piccolo, nuovo Arturo, e invece di lasciarlo davanti ad una consolle di videogiochi portarselo in giro, papà e mammà insieme, a insegnargli che la storia vera non va ignorata, che dietro quelle lapidi ci sono uomini grandi, che Falcone e Borsellino non sono morti invano. La mafia non uccide solo d’estate, come gli aveva detto il padre, un po’ per consolarlo, un po’ per toglierselo di torno. Arturo ha imparato che starne alla larga, non parlarne, non occuparsene, non serve. Nessuno può proclamarsi immune e camminare tranquillo per la sua strada.

E così un giorno si è fermato, racconta “… e ho guardato indietro. E lì la domanda: ma come è possibile che a Palermo la mafia entrasse così prepotentemente nella vita delle persone e in pochi dicevano qualcosa? Il tempo ti rende più lucido, più distaccato e allora capisci gli assurdi compromessi che si fanno con la vita, in maniera più o meno cosciente, per andare avanti. E fai finta che alla fine tutto vada bene. Perché è faticoso uscire dal coro. Perché, per quanto amaro possa essere, sul momento si vive meglio abbassando la testa, e poi si vedrà. Allora, essere un bambino a volte conviene. Perché imiti i tuoi modelli, cioè gli adulti. E se per loro non ci sono problemi, non ci sono neanche per te. I problemi arrivano quando, un giorno, il bambino capisce che la mafia non uccide solo d’estate

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