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Logan – The Wolverine di James Mangold: dalla Berlinale 67 alle sale italiane, la recensione in anteprima

Oh wagon trains rollin’ along they fade from my visions and in time will be gone
I see an eagle in space my people will follow oh oh a vanishing race
(Johnny Cash, 1964)

Lo spazio del crepuscolo. Ancora una volta James Mangold lavora sui margini della saga Wolverine e come per il precedente film immerge il personaggio di Logan in una dimensione immaginale riconoscibilissima e inedita allo stesso tempo.

Da una parte il cinema del paesaggio, da George Stevens a Sam Peckinpah, dall’altra una serie di stimoli che si servono di una cinefilia nient’affatto gregaria per parlare dell’America contemporanea con acuminata lucidità politica, fino al punto di mettere insieme “I bambini venuti dal brasile”  di Franklin Schaffner con i dannati di Rilla, elementi di un racconto anti-retorico sul confine tra Messico e Stati Uniti, “prima che tutta la questione del muro di Trump fosse al centro della cronaca“, come hanno ricordatolo stesso Mangold insieme al cast in conferenza stampa a Berlino.

C’è quindi la capacità di cogliere il sentimento del tempo, riducendo ancora una volta all’osso tutti i paraphernalia dei film di Bryan Singer e puntando sul dramma umano, la violenza e la figura di un uomo solo e stanco al centro di una wasteland che sembra il punto di contatto tra il western crepuscolare degli anni settanta e l’immaginario post-apocalittico di certa fantascienza.

Era già chiaro con il trailer diffuso in questi mesi e accompagnato dalla versione di Hurt interpretata da un Johnny Cash al tramonto, vera e propria guida spirituale di tutto il film: un continuo ritorno sui luoghi delle proprie origini, alla ricerca di una traccia, un segno di vita e di resistenza in una terra popolata da fantasmi.

Tutti i personaggi che ruotano intorno all’universo circoscritto di Logan (Hugh Jackman), dall’albino mutante Caliban (Stephen Merchant) al professor Xavier (Patrick Stewart) sono costretti a sopravvivere come esuli, nella ripetizione di gesti e azioni. Logan alla guida di una Limo per offrire servizi di trasporto, Xavier secluso ai margini del deserto all’interno di un’area industriale dismessa.

Mangold riesce a creare la straordinaria vertigine del futuro anteriore, collocando i suoi personaggi come fossero Stalkers, sul ciglio tra presente e futuro e scegliendo come ambientazione privilegiata il confine con il Messico. È in questo modo che punta al cuore delle questioni politiche attuali con tutti gli elementi della tragedia, inclusa la capacità di entrare e uscire dalla dimensione mitopoietica mediante numerose biforcazioni.

Logan guarda se stesso attraverso l’albo a fumetti che ne racconta la saga, una distanza chiarissima dello stesso Mangold dagli obblighi del franchising, ma anche attraverso la piccola Laura (una straordinaria Dafne Keen), nuova creatura mutante che incarna quel sentimento di intimità e allo stesso tempo estraneità con le proprie radici. 

Ci sembra straordinario di questi tempi e non solo per quanto riguarda il funzionamento seriale dell’industria, puntare sulla dissoluzione dell’identità e allo stesso tempo sulla sua sopravvivenza. Logan incarna questo transito, attraverso i volti di Stewart e Jackman, figure che aspettano il momento giusto per scomparire, mentre Mangold indugia sulle rughe, sul loro incedere stanco, sul dolore dello stesso Logan mentre cerca di staccarsi i lunghi artigli, sul senso della mortalità così vicino a quello che ci attraversa ogni volta che ci allontaniamo dalle nostre origini. 

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