Home alcinema Oltre la notte di Fatih Akin: la recensione in anteprima

Oltre la notte di Fatih Akin: la recensione in anteprima

La vita di Katja si infrange quando il marito, Nuri, e il figlioletto Rocco rimangono uccisi da una bomba fatta esplodere durante un attentato.
I suoi amici e la famiglia cercano di supportarla e la donna in qualche modo affronta il lutto. Ma la ricerca dei responsabili e le ragioni dietro questo gesto insensato aprono nuovamente dubbi e ferite. Danilo, un avvocato e miglior amico di Nuri, rappresenta Katja nel processo contro due sospettati: una giovane coppia che frequenta il contesto neo-nazista. Il processo spinge Katja fino al limite, ma non ci sono troppe alternative e la donna è in cerca di giustizia.
Il regista turco Fatih Akin torna alla regia facendosi ispirare dai delitti perpetrati dalla Nationalsozialistischer Untergrund, nota come NSU, l’organizzazione neonazista che si rese responsabile di una serie di omicidi a sfondo razziale in Germania tra il 2000 e il 2007. Uno degli aspetti più gravi fu il concentrarsi delle indagini sulla comunità legata alle vittime, privilegiando la solita pista dello spaccio di droga e le connessioni legate al gioco d’azzardo. Una pressione così forte, alimentata dalla stampa dell’epoca, che cominciò a fomentare e distorcere percecezione e sospetti popolari.

Nuri è un immigrato proveniente dalla parte curda della Turchia, in passato ha scontato una pena per possesso di stupefacenti e lo stesso matrimonio con Katja avviene nel contesto carcerario, con la famiglia di lei completamnte ostile. Poco prima dell’attentato troviamo Nuri dopo aver pagato il suo debito con la società. Consultente fiscale, traduttore, agente di viaggio a supporto degli immigrati di Amburgo.

Akin non è interessato al punto di vista degli assassini, con il personaggio di Katja punta a sondare un sentimento molto vicino a quello della vendetta, un sentimento che dovrebbe rimanere sempre sopito dentro di noi, ma che comincia ad emergere nei desideri della donna, attraverso la sua sete di giustizia. Katja è un alter-ego dello stesso Akin e attraverso i tre capitoli che costituiscono il film, il regista di origini turche si avvicina maggiormente al suo mondo interiore, sempre più in conflitto rispetto alla realtà sociale della sua città. Le indagini della polizia, le fasi del processo e le reazioni della società civile, rivelano a Katja l’origine di un pregiudizio che ha radici ben più sottili e diffuse della deriva neonazista, perché radicato nelle scelte e nello sguardo di chi dovrebbe rappresentare una garanzia per tutti.  Senza fornire alcuna risposta, tutta la forza del film di Akin risiede allora nel volto e nel corpo di Diane Kruger; sempe più sconnessa dalla realtà occupa una posizione di confine che da una prospettiva rovesciata si avvicina pericolosamente a quella dei suoi carnefici. Questo avvicinamento alla dimensione più oscura della violenza consente ad Akin di confondere le carte tra exploitation e una riflessione apparentemente più profonda, punto debole di tutto il suo cinema dopo “Ai confini del paradiso”.

Il suo film non aggiunge niente rispetto allo sguardo dei Winner, Eastwood, Schrader, ovvero rispetto alla descrizione di quelle anime la cui deriva rappresenta l’eccedenza più flagrante nel progressivo dissolversi dello stato di diritto delle società occidentali.

Ecco allora che Diane Kruger concentra su di se tutta quella ambiguità che il cinema di Akin taglia un po’ troppo spesso con l’accetta. Volto e corpo sofferente, viene colta nei momenti migliori del film in un vero e proprio stato di transito; una contemplazione della violenza e del suo valore distruttivo che potrebbe bastare a se stessa.

Il film sancisce la collaborazione con lo sceneggiatore Hark Bohm che è anche un avvocato, utile per il regista di origini turche nella supervisione di tutti gli aspetti processuali che vengono sfiorati nel film in tutte le parti zavorrate da una pesante e inutile necessità didascalica.

Dirige la fotografia il solito Rainer Klausmann che lavora con Akin da molti anni e che gli consente di mantenere un livello equidistante dalle sue intenzioni arthouse,  mentre la colonna sonoraa questo giro è curata da Josh Homme dei Queens of the Stone Age. Akin ha ascoltato molti dischi della band quando scriveva la sceneggiatura di “in the fade” e lo spirito fatalista della loro musica pare lo abbia convinto per quei suoni. L’idea iniziale era quella di utilizzare alcuni brani della band, ma quando Josh ha visto il montato finale si è deciso a lavorare alle musiche originali, anche se il tempo a disposizione era limitatissimo. La  musica di Homme è forse l’altro aspetto selvaggio insieme alla presenza della Kruger, si rivela infatti elemento fondamentale nel regolare ritomo, tensione e senso di ineluttabilità. 

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