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Ricomincio da tre di Massimo Troisi: la recensione

Ritrovarsi con Troisi. Ritrovarsi con Troisi, vuol dire ogni volta confrontarsi con la sua assenza, con la consapevolezza che non è qui, non più. Ritrovarsi con Troisi oggi significa cogliere a maggior ragione le sottili inquietudini che agitavano già quella comicità così peculiare, così unica, e farle andare in superficie a velarla, a drappeggiarne le forme. Ritrovarsi con Troisi oggi significa in sostanza confrontarsi con la morte, laddove il suo era già un confronto diretto con le idiosincrasie e le contraddizioni del vivere, i dubbi e le difficoltà del vizio di esistere. E questo com’è ovvio rende la sua comicità, o meglio la comicità, immortale.

La vicenda tragicomica di Gaetano che fugge dalla famiglia di San Giorgio a Cremano per trovare un proprio spazio esistenziale in quel di Firenze (ma non da emigrante, da viaggiatore…), trovandosi di volta in volta al confronto con una pletora di personaggi bizzarri (lo straordinario Renato Scarpa, mitologico Robertino), circostanze borderline (i pazzi Mirabella e Messeri) e straniamenti d’ogni sorta (la giovane zia, Marina Pagano, con l’amante nascosto alla famiglia; la morosa, Fiorenza Marchegiani, dagl’istinti femministi, a lui incomprensibili; il padre Lino Troisi rimasto monco e in attesa di miracolo), non è che il naturale seguito, strutturato e trasposto su pellicola, dei caustici sketch televisivi de La Smorfia, il trio con Enzo De Caro e il fedele Lello Arena (presente anche qui nel ruolo dell’omonimo, bislacco, amico Lello). Sketch in cui tutti i segni delle tematiche care al Troisi maturo erano già ben presenti, seppure mascherate in quadretti surreali: la matematica torsione del folklore partenopeo, dell’etica del vicolo, in corrosivo e geniale sberleffo dello stereotipo, per via della memoria eccelsa (ovviamente i De Filippo, Totò) da un lato, della quasi biologica espressività della Napoli storica dall’altra e di una visione nuova, contemporanea, politica, dall’altra ancora.

Il disincanto, lo sguardo attento sulle dinamiche storiche, il dubbio che nelle scenette per Non Stop facevano da sottotesto ad inarrivabili ed esilaranti situazioni comiche, battute e tormentoni (“Annunciazione! Annunciazione!”), diventavano nel suo cinema col tempo sempre più malinconico e riflessivo (Le Vie Del Signore Sono Finite), motore primo di ogni azione andando a combinarsi con quella poetica dello spaesamento che sottendeva alla new wave del cinema giovane italiano a cavallo alle due decadi ‘70/’80. Il cinema del riflusso, della fuga dalle barricate, dai collettivi, dal ’77 (quello di piombo, non quello punk) che sullo schermo, aldilà dei mille rivoli dell’underground, si animava di volti per lo più maturati in TV che per la prima volta raccontavano la propria stessa generazione attraverso narrazioni nelle quali lo sbando, il dubbio, l’alienazione, erano, seppure declinate in veste brillante, prepotentemente protagoniste. Un cinema dalle forti connotazioni regionalistiche di giovani per giovani che (finge di) rompe(re) con la grammatica della commedia all’italiana, per raccontarsi in presa diretta. Era il cinema di Nichetti, di Verdone, di Nuti e Benvenuti (il clamoroso Ad Ovest Di Paperino), di Moretti, nel quale Troisi giganteggiava con una verve inarrestabile a cui il vernacolo attribuiva un preciso valore aggiunto.

Troisi, già al suo esordio, si descrive ad un passo oltre: osserva il suo tempo dal luogo distaccato di chi vive in un perenne stato d’inadeguatezza ma l’inadeguatezza piccolo borghese, universitaria, di chi assume lo scontro generazionale con la guerra alla tradizione, col San Gennaro folk, con la cartolina del golfo, con i numeri della smorfia (appunto), con la pizza fritta. Il Gaetano di Ricomincio Da Tre si allontana dalla casa paterna per assecondare una smania di evasione, un desiderio di rinnovamento che ha poco a che vedere con il teatro dialettale ma anche con Edoardo. Il suo sbandamento sposa la ricerca identitaria dei suoi corrispettivi continentali, con la smania dell’affrancamento dalla tradizione, dal luogo comune, da Scarpetta, riconoscendo però in questi la stessa fonte culturale da cui attingere, lo stesso strumento con cui operare il proprio contrasto. Tanto che il padre non è più il Felice Sciosciammocca che si arrabatta per unire pranzo e cena, è un operaio infortunato che vive il proprio tempo ma nondimeno tiene l’altarino in casa e prega per una grazia che non arriverà mai. E’ una mutazione, quella che racconta e continuerà a raccontare Troisi, la mutazione in atto nel tessuto sociale di un popolo che rimane saldamente legato alla propria popolanità. Un aspetto però che lui stesso, coscientemente, non vuole togliersi del tutto di dosso e che anzi afferma con prepotenza, muovendosi in costante bilico tra sentimenti in contrasto, in costante turbamento, in eterno dubbio.

Davanti la macchina da presa c’è quella maschera radicata così profondamente nell’immaginario comune, proprio in virtù delle sue multiple possibilità di lettura, da renderne la visione davvero un evento massificante, un rito collettivo: con le sue mosse, i suoi tic, le sue dissertazioni tra il filosofico e l’assurdo, le sue parole smozzicate, il suo atteggiamento sempre provocatorio nei confronti della religione, del pensiero comune. Un corpo subito riconoscibile, iconico e non più popolano ma popolare nel senso più autentico del termine.

Dietro la macchina invece un regista al suo esordio, alla ricerca di una cifra personale, ancora un po’ brusco, un po’ televisivo, un po’ incerto, che ancora inscena la gag e il monologo come da sopra un palco, che si abbandona a teatrali pianisequenza infiniti (ma quanta bravura, quanto mestiere, che sinergia), con uno sguardo ancora non del tutto a fuoco forse, ancora ruvido ma anelante al classico e che già da Scusate Il Ritardo si farà misurato ed attento.

Ritrovarsi con Troisi oggi, ritrovarsi con Ricomincio Da Tre, proposto in sala per soli due giorni nella versione restaurata dal Centro Sperimentale di Cinematografia e distribuita in 200 sale da Microcinema, è ritrovarsi con un autore autentico e col suo ritratto da giovane; con un cinema inventivo, fatto d’idee, corpi in stato di grazia, storie e nulla più (come se fosse poco!) e con una scheggia di storia popolare, con un prezioso pezzo d’artigianato, che andrebbe tenuto caro ancora e ancora. Uno di quei referenti che andrebbe osservato non soltanto con distaccata, o addirittura distratta, riverenza ma studiato e capito. Un ritratto di storia sociale vestito di malinconica comicità. Qualcosa che al cinema e non solo italiano e non solo al cinema nessuno oggi sa più fare.

 

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