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Searching di Aneesh Chaganty: la recensione

Timur Bekmambetov ci riprova. Il manifesto del perfetto “screen movie” viene applicato nella sua interezza, perfezionando l’interfaccia e il sistema di editing sperimentato con Unfriended di Levan Gabriadze, tanto da consentire una traduzione “immersiva” di tutta la cornice allestita per “Searching” anche nelle versioni internazionali. Nelle intenzioni del produttore di origini russe non è tanto importante il sistema adottato, quanto la possibilità che si delineino tutti i presupposti necessari per sviluppare un nuovo contenitore che includa qualsiasi genere, dalla commedia al dramma famigliare, fino al disaster movie.
Il “manifesto”, attraversato da uno spirito che ricorda le limitazioni imposte del Dogma 95, ha ispirato questa nuova produzione diretta da Aneesh Chaganty, creativo Google inserito nell’azienda di Mountain View dopo il successo globale del suo corto universitario ispirato all’utilizzo dei Google Glass. “Seeds” seguiva la retorica “autoallucinatoria” della soggettiva, rendendola più vicina all’utilizzo casalingo, senza aggiornare le intuizioni di Douglas Trumbull se non per la riduzione dei dispositivi di produzione e di fruizione. Con “Searching” il giovane regista di origini indiane prova a spingersi oltre rispetto alle dinamiche virali di “Unfriended”, realizzando un film nuovamente delimitato dai confini degli schermi e delle interfacce mobile, puntando maggiormente a quello che lo stesso Bekmambetov ha definito a più riprese come “coreografia”. Non è allora il contenuto che interessa alla coppia di apolidi americani, ma i movimenti del mouse, la successione delle finestre, il senso di vuoto che queste possono creare, le intenzioni di un gesto interrotto, evidenziate in questo caso dalla prassi corrente della cancellazione o della revisione di un messaggio, quasi a voler contraddire l’approccio raggelato del film di Gabriadze, nel tentativo di inventarsi una dimensione maggiormente emozionale.

David Kim (John Cho) è da poco vedovo e mantiene un rapporto problematico con la figlia Margot (Michelle La). Come in Unfriended tutto è già soggettivamente esperito attraverso i sistemi di messaggistica istantanea e la loro cornice. I confini della comunicazione connettiva delimitano e frammentano lo spazio casalingo fino all’indefinitezza del concetto di distanza; ciò che accade nella camera accanto potrebbe essere già oltre, nel continuo scambio tra confessione, controllo e simulazione. Quando David scopre che Margot non è rientrata a casa durante la notte precedente, ne denuncerà la scomparsa. Il caso viene affidato al Detective Vick (Debra Messing) che insieme al padre della ragazza, intraprenderà una ricerca senza tregua attraverso le tracce lasciate da Margot durante la sua attività “social”.

Interamente costruito da uno schermo che si sfalda e riconfigura nell’altro, “Searching” si sposta dall’architettura di un laptop a quella di un iPhone, da Facebook alle applicazioni di live streaming, contribuendo a creare un luogo in cui tutto è in funzione dello sguardo, a partire dalla narrazione dei ricordi che riguardano la storia famigliare dei Kim, concepita attraverso la memoria tracciata dai network di condivisione e sovrapposta all’evoluzione stessa delle GUI. 

Rispetto alla vertigine digitale di Unfriended, la qualità testimoniale di Searching assimila l’esperienza dello spettatore ad una sequenza di sessioni, riconducendo il gesto connettivo alla sua concretezza quotidiana. Questa frontalità è il miraggio dell’immersività, perchè trattiene ancora la qualità falsificante di tutte le soggettive, ossessione principale di Bekmambetov, ma allo stesso tempo sostituisce alla riproposizione della prospettiva videoludica, l’aderenza mimetica, di stampo quasi teatrale, con i processi di isolamento identitario che sperimentiamo come utenti comuni. Ecco che i temi diventano quelli più battuti sul rapporto tra affettività, nuove tecnologie ed esperienza “aumentata”, fino ad individuare nell’esperienza di retrieval digitale, il luogo principale del fraintendimento se non della falsificazione.

Subito dopo il successo di Unfriended, Bemkambetov ha perfezionato un sistema di sviluppo per i suoi screen movies, che come dicevamo si è trascinato dietro una modalità proprietaria di editing, un po’ come se dovesse vendere l’interfaccia entro cui sviluppare una serie di possibili film, con una modalità più spinta e vincolante rispetto ai sistemi legati alla tecnologia 3D. Per chi guarda rimane fortissima quella sensazione di mascheramento della performance sperimentata ogni giorno con i filtri “aumentati” che frappongono un’elaborazione grafica tra l’occhio di uno smartphone e il nostro; anche in quei casi torniamo ad un gioco delle parti vicino all’idea più basica di travestimento.

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