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Senza nessuna pietà di Michele Alhaique: la recensione

Si può operare all’interno di uno schema risaputo; lavorare sui paradigmi più noti del noir; costruire una storia su principi narrativi, personaggi, luoghi già ampiamente e meglio sfruttati, calarla nel vuoto pneumatico del pensiero italico d’oggidì e riuscire ugualmente convincente? L’esordio alla regia di Michele Alhaique potrebbe far propendere per una risposta affermativa. Un faticoso percorso ad ostacoli che il regista porta a compimento con lucidità ed esiti, al netto di ogni perfettibilità, più che soddisfacenti. Ampliando, oltretutto, la sua osservazione, da un lato sul mondo della criminalità legata all’imprenditoria edilizia; dall’altro sulla difficile condizione in cui versano i rapporti umani in una società in pieno tracollo economico e quindi morale/sociale.

Nella storia di Mimmo (un Pierfrancesco Favino ciccione e in gran spolvero), un omone di poche parole, una sorta di Bud Spencer depresso, ufficialmente manovale ma in realtà riscossore di crediti per il losco zio (Ninetto Davoli), che, nell’incontro con la giovane prostituta Tania (Greta Scarano) trova la chiave per il proprio personale riscatto, mettendo a repentaglio la propria stessa vita, ci sono tutti gli elementi classici della narrazione nera. Alhaique, però, riconduce tutto ad una dimensione verista e minimale; riportando i suddetti elementi classici, in un luogo intimo, malinconico, privato, nel quale protagoniste divengono le reciproche solitudini; le piccole o grandi o sconfinate miserie umane. Lo sguardo poggia sui volti e sui corpi con infinito pudore; con un rigore che forse non sarà bressoniano, che forse tradisce scelte tecniche anche furbe nella loro sovraesposta modernità (telecamera a mano, primi piani fuori asse, riprese subacquee, ecc.), che forse paga dazio ad un politicamente corretto piuttosto forzato (le immigrate cubane talmente di buon cuore da rasentare l’autolesionismo) ma che ugualmente si pone, con discrezione, al servizio di quella disperata ragione che ha l’ansia di descrivere. Giungendo a soluzioni tanto inattese, quanto riuscite (l’agguato nello stabile immerso nel nero). Un precipitato di effetti notte su figure nelle quali l’umanità è aderente, è stretta, è fisiologica, è troppo umana per potersi arrendere al costrutto narrativo, alla regola manichea, alla monodimensionalità: cosicché, anche il più infimo, o solo il più piccolo, dei personaggi, gode di una struttura di respiro ampio e male si presta alla liquidazione semplicistica. Cosa non da poco, oltretutto, per un esordiente, la gestione di attori facilmente inclini all’eccesso, ottimamente orchestrata e misurata (con un Riccetto straordinariamente a suo agio ed un Giannini jr. ai suoi rari massimi). Sfugge il buon Claudio Gioè, che, malgrado la presenza non indifferente, continua a frenare i suoi potenziali in una recitazione incontenibile, asmatica, costantemente sopra le righe. Uno spaccato parareale (in fondo non così spietato come titolo vorrebbe) che riciclando uno script poco inedito; guardando oltralpe; ricordandosi tanto di Pasolini, com’è ovvio, quanto di Godard ma pure di Matarazzo; mescolando (il non troppo nobile) La Nostra Vita di Lucchetti con la pagina scritta di Pericle Il Nero di Ferrandino, riesce a dire con modestia, senza urlarsi “capolavoro!” addosso ad ogni scena, del dramma della contemporaneità con una lucidità e un senso critico inaspettati. Verrebbe da dire, fingendoci ottimisti, che un cinema italiano è ancora possibile.

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