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The Iceman di Ariel Vromen: la recensione

Basato sulla vita vera del sicario di origini polacche Richard Leonard Kuklinski, il film del regista israeliano Ariel Vromen atterrisce e affascina allo stesso tempo.

La storia è quella di uno dei criminali più spietati della storia, che, al soldo della mafia italo-americana negli anni ’70, arrivò ad uccidere più di cento persone con un modus operandi estremamente versatile. Una storia macabra, insomma, che si sarebbe perfettamente prestata a facili soluzioni sensazionalistiche e ad exploit di sicura presa.

Ma ciò che ritroviamo in The Iceman non è niente di tutto ciò. Gli assassinii perpetrati nell’ombra e lungo un ampio arco temporale vengono condensati in una semplice sequenza sintetico-rappresentativa che delimita un’ellissi temporale tra la fase di corteggiamento della futura moglie Deborah (Winona Ryder) e il raggiungimento di una stabilità economica e famigliare tipicamente borghese.

L’elemento centrale attorno al quale si snodano le vicende sembra quindi essere il legame parossistico (e paradossale) con il nucleo famigliare, dietro cui però si celano i misfatti e le atrocità su cui si regge.

Un contrasto che permea del resto tutte le vicende e che rispecchiano l’ambigua personalità del killer dalla scorza di ghiaccio e dal cuore caldo. Il rischio in cui si incorre è quello di una nobilitazione ed epicizzazione della figura criminale. La storia romanzata infatti non manca di elementi più elogiativi, ma mettere in primo piano proprio l’inflessibile codice etico da perfetto pater familia lasciando sullo sfondo l’attività criminale è di certo una scelta coraggiosa, col rischio di incorrere in sicure critiche tra la critica benpensante. Ma la verità ultima è che la storia di Kuklinski ci sembra solo un pretesto per rimettere in questione gli annosi quesiti su chi sia la vittima e chi il carnefice in una società cannibalica in cui l’homo homini lupus plautino si trasforma più che altro in un lago di sangue ferino.

In un progressivo svelamento dell’identità del personaggio, la causa della personalità sociopatica (ma non anaffettiva) di Kuklinski si scoprirà essere la violenta forgia paterna in età infantile. Soprusi che ridefiniscono inevitabilmente la figura del cattivo e che condannano ad una impasse aporetica il giudizio dello spettatore. Il suo essere fuori da ogni circoscrizione mafiosa, e dalle relative logiche ipocrite e perverse, lo rendono un outsider a tutti gli effetti, un apolide la cui unica ancora di salvezza sembra essere la famiglia: un esemplare ed estremo family man.

Si genera così una fascinazione del personaggio su più livelli, sia dal punto di vista morale che come incarnazione di quegli aspetti più laidi, perversi e misteriosi dell’animo umano. L’inevitabile attrazione verso l’abietto personaggio assume così una funzione catartica, grazie al quale il male sarà esorcizzato e demonizzato in modo più cosciente. In questo senso la retorica solenne che accompagna i momenti della cattura ci sono legati ad un lirismo che ci è sembrato fuori luogo; al netto di questi difetti, l’interpretazione di Michael Shannon è assolutamente magistrale, ieratica e inquietante.

 

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