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The Repairman di Paolo Mitton: la recensione

Strano il caso di Paolo Mitton. La sua carriera nel cinema è stata sempre contrassegnata dagli effetti speciali: come tecnico di montaggio ha lavorato per grandi kolossal hollywoodiani, Troy e La Fabbrica di cioccolato su tutti. Il suo esordio alla regia, The Repairman, è invece un film essenziale, lineare, privo di qualsiasi artificio visivo.

In realtà, ad essere precisi, un effetto speciale è ben presente nel film, in quasi tutte le inquadrature: è il protagonista di questa piccola storia di provincia, Scanio Libertetti, interpretato da Daniele Savoca, attore feticcio di Louis Nero, che per vivere (o meglio, per sopravvivere), ripara vecchie macchine del caffè per una ditta che lo lascia lavorare da casa e gli rimprovera costantemente la sua ostinata lentezza. Scanio ha la vaga sensazione di essere sempre fuori posto: a lui, in verità, poco importa, ma alle persone che lo circondano, amici, parenti, fidanzata, invece sì. “Svegliati”, “Trovati un lavoro”, queste le parole d’ordine che rimbalzano sulla corazza imperturbabile di Scanio, personaggio atipico destinato all’incomprensione altrui.

Presentato in anteprima all’ultima edizione del Torino Film Festival e reduce dal buon successo al Raindance Film Festival e al Shanghai Film Festival, The Repairman è un film alla Jim Jarmusch, pacato, dai tempi dilatati, dominato dal senso del grottesco. Tutto il racconto è un lungo flashback: Scanio sta frequentando un corso di recupero punti della patente e, alla domanda dell’istruttrice sul motivo della sua infrazione del codice stradale, inizia a raccontare l’ultimo anno della sua vita, segnato dall’incontro con Helena, una giovane inglese che lavora nel campo delle risorse umane. A fare da cornice, all’inizio e alla fine del flashback, un viaggio in macchina con un amico agli antipodi dal modo di Scanio di affrontare la vita attraverso la campagna piemontese, tra distese di campi che sembrano infiniti e tralicci dell’alta tensione che proliferano dappertutto.

La storia procede per quadri, macrosequenze che servono a delineare l’universo della rappresentazione. Se da un lato il personaggio di Scanio rafforza alcuni cliché tipici della commedia italiana (l’essere fuori contesto, la marginalità che assurge a valore contro la modernità), dall’altro il ritmo narrativo esula dalle regole del genere, costringe lo spettatore a indugiare sulle inquadrature, si identifica con lo sguardo del protagonista, remissivo, laconico, totalmente disorientato rispetto al mondo che lo circonda. Non c’è niente di forzato, le situazioni comiche lasciano spazio alle situazioni umoristiche, ben rappresentate nelle sequenze delle cene a casa di amici, nelle quali il conflitto è tutto giocato sui dialoghi banali ma tremendamente surreali degli invitati e la naturalezza con la quale Scanio si estrania, entrando in un mondo tutto suo.

The Repairman è un film semplice che però ha la forza di farsi ricordare. Mitton non lascia nulla al caso e si scopre regista notevole per il lavoro minuzioso sulla sceneggiatura, sulla recitazione, sulla messa in scena e sul montaggio, e per la cura che riesce a esprimere nei dettagli. Lontano dai circuiti che contano, The Repairman è un altro esempio di come il cinema indipendente italiano stia attraversando una nuova frontiera: se l’audacia sperimentale sembra destinata a trovare sempre meno spazio, sta prendendo corpo un nuovo tipo di narrazione minimalista, lontana dalla nostra tradizione cinematografica e più vicina e certe esperienze di cinema indipendente americano. Si allargano gli orizzonti, quindi. Per abbracciare un cinema capace di raccontare, partendo da microcosmi, la complessità e le contraddizioni della realtà attuale.

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Michele Nardini è laureato in Cinema, Teatro e produzione multimediale all’Università di Pisa e ha alle spalle un Master in Comunicazione pubblica e politica. Giornalista pubblicista, sta maturando esperienze in uffici stampa e in redazioni di quotidiani, ma la sua grande passione rimane il cinema
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