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The Woman who left di Lav Diaz – Venezia 73 – Concorso: la recensione

Gli esseri “abbandonati nel mondo” della filosofia Heideggeriana, tornano al centro del cinema di Lav Diaz con una radice Tolstoyana liberamente “dimenticata”, quella di “Dio vede la verità”, breve racconto scritto dall’autore russo nel 1872. L’inconoscibilità della vita sembra ancora una volta riletta alla luce della seconda fase del pensiero del filosofo tedesco, ma non è solo la poesia, come in Melancholia, a “custodire la casa dell’essere”, quanto la forza del cambiamento che la include, già fortissima in Century of Birthing e che si connette alla storia delle Filippine attraverso la resistenza del racconto orale, quello che Horacia elabora nella sua lunga attività di insegnante elementare, mentenuta come prassi anche negli ultimi trent’anni della sua vita, trascorsi in un carcere femminile per un delitto che non ha commesso.

Quando il colpevole confesserà, Horacia lascerà una prigione che è diventata la sua famiglia, per cercare le radici di quella vera attraverso le Filippine degli anni novanta, paese piegato da un flusso incontrollabile di violenza.

Come altri personaggi del cinema di Lav Diaz, Horacia si cala in una realtà sconosciuta e ne interpreta il tessuto attraverso la moltiplicazione del punto di vista. Madre premurosa nel rapporto con il transgender Hollanda; anima in cerca di vendetta all’ombra di una chiesa cattolica; creatura notturna e “maschile” durante i peregrinaggi con il venditore di balot; di nuovo insegnante per la piccola comunità rurale che vuole riappropriarsi della terra espropriata dalle istituzioni.

Ricerca e transfert sono i movimenti che alimentano il cammino della donna attraverso una narrazione apparentemente semplificata rispetto al tempo ipnotico e rituale che spezza ogni cronologia tradizionale nel cinema del regista filippino, apparentemente perché è come se la complessa polifonia di opere come From What is Before, capaci di sovrapporre simbolo, rito, Storia e vita quotidiana, venisse assorbita dalla caratterizzazione di alcuni personaggi, assimilati per trasmissione da quello di Horacia; sospesa tra grazia e violenza, aderenza e distacco, partecipazione e trasformazione, la donna è insediata da numerose possibilità

Diaz continua ad esplorare con un’intensità rarissima la relazione tra uomo e natura in quello spazio di transito che mantiene le cicatrici del tempo, quelle del passaggio coatto verso l’urbanizzazione, mentre la natura lascia ancora tracce e scandisce l’inesorabilità del tempo.

La dimensione rituale prende vita attraverso i corpi del venditore di balot e di Hollanda, ma anche nell’incontro di Horacia con una comunità che emerge dalla strada e dall’ombra.

Nel costante e rigoroso lavoro sul suono, volutamente e vitalmente impreciso, Diaz è forse l’unico cineasta al mondo capace di realizzare un cinema aptico, tangibile e che stabilisce un rapporto tridimensionale tra suono e immagine, con una modalità del tutto dimenticata anche dal cinema indipendente, sopratutto quando tende alla perfezione del contenitore, sbarazzandosi di tutte le slabbrature.
Diaz le conserva tutte e sopratutto in questo ultimo lavoro, punta molto sulla voce dei personaggi e sulla prossimità della stessa alla posizione empirica dello spettatore.

Il girare a vuoto di Horacia, sradicata e alla ricerca di un senso, è una straordinaria lezione di vita: quello sforzo di aprirsi alla chiamata, “dalla lontananza”.

 

 

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