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The nines di John August – Venezia 64: la recensione

I’m in no hurry for that final disappointment,
for I know just as well as I’m standing here talking to you,
when that final moment comes and I’m breathing my lst breath, I’ll be saying to myself
is that all there is?

John August è un noto sceneggiatore, ha scritto per un buon numero di film diretti da Tim Burton, compreso l’adattamento per Big Fish, suoi sono i due Charlie’s Angels e Titan A.E. The Nines è il suo debutto come regista supportatto da Dan Etheridge, produttore di provenienza prevalentemente televisiva. La scrittura di August è l’aspetto più ingombrante di The Nines, sviluppato a partire da tre blocchi narrativi spiraliformi, sovrapposti anche in termni di ruoli e spazi del racconto, definisce ogni sezione come un universo a parte capace di comunicare con gli altri sui tracciati di un multiverso alla Moorcock.

The Nines anche in questo senso ha un’apparenza del tutto british. Ryan Reynolds è una star della televisione agli arresti domiciliari per circostanze non del tutto chiare, due donne controllano i suoi movimenti, la prima preservando la sua esistenza dentro i confini della casa, la seconda cercando di fargli forzare i limiti dell’area. Nel secondo episodio, lo stesso Reynolds, interpreta l’ideatore di un Reality show che collassa con il suo universo, la dissoluzione progressiva del dispositivo fiction preme come un pericolo imminente sulla persistenza dell’iperrealtà che gli sta intorno. L’ultima sezione vede ancora Reynolds ideatore di uno strano videogame chiamato Knowing, creatore di mondi che si sfrangiano dalla sua stessa creatività/volontà.

The nines recupera una fascinazione digitale e archeologica di certe produzioni ITC e in particolare sembra riferirsi alla breve parabola televisiva di P.J. Hammond nel tentativo di re-inventare una fantascienza di tipo filosofico capace di sviluppare derive del racconto a partire dalle anomalie del tempo. La sensazione è che il livello della scrittura assuma una posizione privilegiata in un vero e proprio contenitore di forte impatto televisivo che non si lascia andare alla sporcizia dei chroma key e ai mille mondi possibili di un’immagine digitalmente imperfetta.

L’immagine raramente partecipa delle stesse possibilità aperte dal testo, tranne quando si lascia trascinare dal potere evocativo di is that all there is? la canzone di Peggy Lee sulla volatilità della memoria che viene disseminata nei dialoghi di The Nines come una possibilità di gemmazione del testo e che trasforma le visioni terribili e meravigliose di una vita di amore e disillusione in uno sguardo glaciale su universi che collidono.

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