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Venezia 69 – Orizzonti – Ja tože choču (Me too) di Aleksej Balabanov (Russia, 2012)

C’è un campanile su un’isola in mezzo a un lago ghiacciato e chi ci entra può ottenere la felicità ed essere trasportato altrove; non a tutti è dato il privilegio, anche se tutti possono provarci. A seguito di una misteriosa tempesta elettromagnetica, il territorio circostante è altamente radioattivo e chi vi si addentra ne viene fatalmente contaminato. Fuori dal recinto è piena estate, dentro l’inverno atomico, e il territorio sommerso dalla neve è disseminato dei cadaveri di quelli che non ce l’hanno fatta. L’ambiente, nei film di Aleksej Balabanov, è sempre stato importante almeno quanto la storia e i personaggi. In questo ultimo film la storia è a dir poco scarna e i personaggi appena accennati, in bilico tra l’essere pura emanazione dell’ambiente e archetipi umani. A guidare l’avventurosa spedizione alla ricerca della felicità è il Criminale (Aleksandr Mosin), ‘uomo di azione’, antieroe positivo, impavido e donchisciottesco (una statuetta dell’hidalgo troneggia in casa sua). Il suo amico Matveev (Jurij Matveev) è ‘uomo di affetti’ (segue l’amico, porta con sé il vecchio padre). Il Musicista (Oleg Garkuša) è un ‘uomo di sensibilità’, con il dono della creazione artistica. Ai tre avventurieri si aggiungono altri due viaggiatori: il Ragazzo (Balabanov jr) simbolo della ‘forza della mente’ (ha il dono della preveggenza), e la Ragazza (Alisa Šitikova), incarnazione della ‘forza del corpo’ (corre nuda nella neve). Ma come sempre nel mondo di Balabanov l’umanità non è mai divisa in categorie morali, qualità e difetti coesistono come diverse gradazioni della stessa attitudine. Così per eccesso di azione si uccide, per difetto di amore si beve, la sensibilità dà amarezza, la forza della mente allontana dagli altri, la forza del corpo li fa avvicinare troppo. La felicità non è concessa a tutti, ma il fatto di perseguirla presuppone il desiderio di riscatto. Ciascuno ci arriva a modo suo, ciascuno deve trovare la propria strada: da sempre è questo il modo di vedere le cose di Balabanov. I suoi personaggi non sono mai spiegati in termini psicologici: sono esattamente quello che fanno. Ciascuno di loro arriverà alla meta o rinuncerà, coerentemente con la propria indole profonda. Gli unici a cui non sarà concessa la felicità sono quelli che hanno ucciso (fisicamente o metaforicamente) qualcun altro, negandogli la prova della felicità.

Balabanov ha saputo cogliere come pochi altri l’anima nera delle diverse epoche della società russa: i morbi intellettuali degli anni Dieci (Morfij, 2008), la perversione tecnologica degli anni Venti (Pro urodov i ljudej, 1998), la stagnazione cadaverica degli anni Settanta (Cargo 200, 2007), l’etica criminale degli anni Ottanta (Brat, 1997), la brutalità della guerra cecena (Vojna, 2002). Come se la resa dei conti fosse già avvenuta (il fuoco che annienta e purifica in Kočegar, 2010), l’atmosfera plumbea e apocalittica di quest’ultimo film travalica i confini della geografia e della storia russe, puntando a un altrove extratemporale. Il Campanile della Felicità si trova in uno spazio separato dal mondo. Torna inevitabilmente alla memoria la Zona tarkovskiana di Stalker, ma qui il territorio è una carcassa abbandonata più che un’entità psichica viva. Il regno di Utopia, già preannunciato in Cargo 200 quando – nel corso del dialogo sull’ateismo – viene citata la La Città di Dio di Campanella, torna qui in apertura del film nell’invocazione del Musicista davanti all’icona con una citazione letterale delle Preghiere della Torre di Tommaso Moro che è anche l’autore dell’isola di Utopia. La ‘città degli uomini’ è un posto da cui fuggire senza esitazioni (lo vogliono tutti, per dirla col titolo del film) perché le torri sono ciminiere. Un posto saturo di rumori (sirene, cantieri, tamponamenti a catena), asfittico (sauna, ascensori, case anguste) e malato dentro (farmacia, ospedale, endoscopia).

Il classico dinamismo centripeto dei personaggi di Balabanov dalla periferia all’epicentro della Russia, dalla provincia alla città, lascia il posto a un deciso movimento centrifugo il cui unico prodromo è nel finale di Mne ne bolno (2006) ma con esito diverso e immanente – fallita la ricostruzione-perestrojka in città, la rifondazione poteva attuarsi nello spazio vergine della provincia russa e nel calore degli amici, mentre in questo caso l’epilogo è freddo, individuale e trascendente. Identico resta però il concetto della forza dei figli e della debolezza dei padri: Matveev porta con sé il fantasma del padre veterano di guerra, la Ragazza si prostituisce per aiutare la madre malata e Balabanov junior è il ragazzo veggente che conosce tutto, laddove Balabanov senior non sa cosa che ha fatto. Una leggenda locale narra che il campanile pendente – realmente situato tra San Pietroburgo e Uglič – cadrà proprio quest’anno, l’apocalittico anno domini 2012. Il monologo di Matveev davanti al falò veicola l’idea del regista: la totale palingenesi dell’umanità presuppone una distruzione totale della civiltà, una nuova era glaciale che come una tabula rasa permetterà una rifondazione integrale dei valori e della società. In assenza di guide spirituali (non ci sono “stalker”, il prete viene respinto e le chiese sono vuote e scoperchiate) il campanile della felicità ricorda la Torre di Babele della Genesi (“una torre la cui cima giunga fino al cielo”) ossia il sogno di un’umanità unita verso un bene comune. Il vecchio deve perire perché possa rifondarsi il nuovo – il padre Balabanov muore e il figlio Balabanov è proiettato in un altrove che non è dato conoscere.

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