Home alcinema Viviane di Ronit Elkabetz, Shlomi Elkabetz: la recensione

Viviane di Ronit Elkabetz, Shlomi Elkabetz: la recensione

Ultima di una trilogia della famiglia iniziata nel 2004 con Ve’Lakhta Lehe Isha (Prender moglie), portata avanti nel 2008 con Shiva (I sette giorni), Gett – The trial of Viviane Amsalem (Viviane) è la tappa più tormentata, trattando del difficile divorzio di Viviane (Ronit Elkabetz) dal marito Elisha (Simon Abkarian).
Cinema da camera, o, meglio, da aula di tribunale rabbinico, Viviane è un dibattimento che dura quasi due ore di al cinema, tre anni nel tempo reale, con i tre “egregi rabbini” seduti in posizione elevata sul banco dei giudici e i due contendenti con i loro avvocati più in basso, dietro semplici tavolinetti del genere aula scolastica.

La sciatta povertà dell’arredo contrasta singolarmente con le superbe aule dei tribunali occidentali, solenni templi della giustizia umana. Ma qui c’è la legge divina da amministrare, l’uomo non è che minuscola particella di un disegno superiore e a nulla servono gli orpelli esteriori. Se poi una delle parti in causa è donna, si annulla perfino il diritto di parola.
Ronit Elkabetz (qui anche sceneggiatrice con il fratello Shlomi e protagonista nella parte di Viviane) costringe il pubblico in pochi metri quadrati, una finestra oscurata sul fondo, una porta chiusa e nient’altro. Qualche breve sosta nella sala d’aspetto e poi di nuovo dentro, in una immersione così totalizzante sul problema da provocare in chi guarda reazioni di forte disagio, uno “straniamento” che potremmo definire di tipo brechtiano per il clima di impotenza e di sopraffazione che si respira fino alla fine.

Ronit Elkabetz dosa con sapienza visività e narratività, dando corpo al suo personaggio senza ricorrere a parole o gestualità alterata. L’amara storia di Viviane affiora fra le secche di un dialogo infarcito di formule stereotipate, nello scenario offerto da una cultura nient’affatto disposta a lasciar spazio alle sue ragioni, fra attese defatiganti e templi biblici di dibattimento, muri di incomprensione e pregiudizi millenari messi in campo dai suoi avversari. Viviane arriverà trionfante alla fine, ma non felice. La morsa di una condizione culturale che l’ha deprivata per troppo tempo del più elementare dei diritti, quello alla libertà, lascia piaghe che non spariscono.

Di aggiornamento in aggiornamento la causa si è trascinata, sfiancante e umiliante, per tre anni, ma Viviane è una donna che ha deciso di sfidare tutte le leggi, umane e divine, condannandosi ad una odissea giudiziaria che più che altro è un braccio di ferro con l’altra metà del cielo, cioè l’uomo. Marito, rabbini, cognato, vicino di casa, amico di famiglia: sfila in tribunale la tipologia completa dell’angusto campionario maschile che circonda la donna, sposata (o fatta sposare) che aveva solo 15 anni e ora, dopo trent’anni, madre di quattro figli. La sua scelta di libertà è maturata nel tempo e nel silenzio, ma spetta di diritto al marito la decisione di concedere o meno il divorzio.

Quando e se finalmente darà il suo assenso, i rabbini consegneranno il “Gett”, pergamena manoscritta officiante il divorzio che il marito poserà nelle mani aperte a conchiglia dalla moglie, in un cerimoniale tanto farraginoso quanto ridicolo. Prima di arrivare a questo, però, ci saranno montagne da scalare. Elisha è un uomo normale, c’è chi, fra i testimoni convocati, lo descrive come eccellente rappresentante del genere umano, come può la moglie desiderare di separarsi? Come può Viviane decidere di diventare socialmente reietta, condizione a cui andrà inevitabilmente incontro come donna sola? Come può lasciare un marito che non la picchia, le dà di che vivere, le ha regalato quattro figli da allevare? Cos’è mai questa stranezza? C’è forse qualche segreto inconfessabile nella sua vita? Ha commesso adulterio? Il suo avvocato è forse anche il suo amante?

Su quest’ultima domanda la reazione di Carmel (Menashe Noy), l’avvocato, l’unico uomo degno di questo nome in quel piccolo mondo di marionette fanatiche, è furiosa al punto di chiedere al rabbino capo l’abbandono del suo ruolo di giudice (attirandosi così fulmini e saette direttamente dal cielo, com’è facile prevedere). Eppure, nonostante i toni si facciano spesso molto accesi, lo zoccolo duro di una legge millenaria, che solo la caparbietà di questa donna si fa carico di contestare, continua a resistere e menar colpi oltre ogni ragionevole previsione e attesa.

Ronit Elkabetz dà corpo al suo personaggio evitando psicologismi ed introspezione. Nel suo silenzio interrotto solo da frasi brevi, Viviane diventa sempre più reale, la sua è una presenza scenica forte e sofferente in quel nervoso intrecciare con la mano i lunghi capelli corvini. “Lasci stare i capelli!” le urla spazientito il rabbino. Viviane avrebbe fatto meglio a trasformarsi in pietra, dunque.

Con sottile autoironia Ronit Elkabetz parla di una condizione femminile molto sovranazionale, pur partendo da una legge del suo popolo e rivolgendo lo sguardo ad una situazione famigliare che non si distingue per maltrattamenti, stupri, adulteri o quant’altro. Il risalto si fa così molto stridente, più che se se avesse messo in scena uno dei consueti scenari del dolore. Semplicemente c’è stata una lunga convivenza che ha schiacciato Viviane in un ruolo, quello di moglie e madre, che ha annullato la sua identità di “persona”. C’è un marito indifferente, spesso assente, che ora lei non ama più e con cui non tollera di vivere insieme. E’ la colpa più imperdonabile, cosa c’entra l’amore? E poi, perchè Elisha non è più amato? Ma quest’ultima domanda non la pone nessuno.

Viviane è il simbolo di tutte le donne in lotta per la propria libertà, dovunque sia conculcata e quali che siano i mezzi per farlo, anche i meno evidenti, anche lì dove morbidi scenari famigliari, spesso addirittura condivisi per ignoranza e conformismo, la chiudono in carceri di cui l’uomo ha gettato le chiavi. Dopo il passaggio quest’anno alla Quinzaine des Realisateurs di Cannes e poi a Toronto, Gett – The trial of Viviane Amsalem rappresenterà Israele come miglior film straniero agli Oscar 2015.

Exit mobile version