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48° Pesaro film festival – Concorso – Sharqiya di Ami Livne (Israele, 2012)

Sharqiya è un termine arabo che significa vento negativo, vento cattivo, nome con cui viene chiamato quel vento polveroso che da Est procede verso il deserto del Neghev. Un vento che, secondo certe superstizioni, è presagio di sventure, esattamente come nel brillante film del regista, sceneggiatore e produttore israeliano Ami Livne. Un’opera che affronta una problema sociale annoso e piuttosto complicato, oltre che poco conosciuto, della penisola araba, ovvero i difficili rapporti tra Stato e comunità beduine. Dal 1948 in poi è iniziato un processo urbanizzazione forzata che ha comportato lo sradicamento di migliaia di beduini dalle terre di loro proprietà per diritto ereditario. Al giorno d’oggi, i beduini che dimorano in villaggi – nei quali per legge non è possibile allacciarsi alla rete idrica, elettrica e fognaria – isolati dai centri urbani, sono circa dodicimila, ma si prevede un netto calo, visti i continui abbattimenti delle loro costruzioni abitative per mano dello Stato israeliano.

Il protagonista, Kamel (Adnan Abu Wadi), è nella stessa situazione: abita assieme al fratello (Adnan Abu Muhareb) e alla cognata (Maysa Abed Alhadi) in una minuscola bidonville nel deserto a sud di Israele, per la quale i funzionari dell’Autorità beduina hanno emesso un ordine di demolizione. Naturalmente il ragazzo non ci sta. Dapprima tenterà un contatto pacifico con le istituzioni, che puntualmente fallirà, in seguito penserà di adottare ben altri metodi.
Per avvicinare lo spettatore alla prospettiva del protagonista, il regista, come prima cosa, decide di accompagnarlo lentamente dentro una diversa percezione del tempo. Un tempo dilatato, legato a una sensibilità arcaica, distantissima dai martellanti ritmi delle società post-industriali. Un’espansione temporale che trova, paradossalmente, un supporto espressivo negli sterminati spazi desertici dove la durata sembra perdersi nell’infinito, nell’incalcolabile. In base a questo assunto, Livne procede senza fretta nel pedinamento del suo protagonista, descrivendone le azioni più semplici, più abituali; filma i luoghi con uno sguardo avido di particolari, come se fossero entità viventi. E al termine di questo percorso ritroviamo il tema della “terra dei padri”, luogo in cui affondano le proprie radici e in cui sono nate le proprie tradizioni. Da queste premesse scaturisce il pericoloso gesto di Kamel, che posiziona una mina alla stazione centrale di Be’er Sheva, dove lavora come guardia di sicurezza, per poi denunciarla e spacciarsi per eroe nazionale nella speranza di ottenere la revoca dell’esproprio.

Come dimostra il finale, le sue peripezie saranno vane e la legge farà il suo corso senza guardare in faccia a nessuno. Ma sulle macerie delle proprie baracche, a pochi minuti dalla partenza dei militari, Kamel e suo fratello, con l’aiuto di altri amici, avranno il coraggio di ricostruire nuovamente, dando prova che l’unica soluzione, quando non c’è alcuna soluzione, è resistere, rimanendo saldi ai propri valori. Un finale non consolatorio, duro, ma soprattutto vero.

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