Home news Venezia 67 – Concorso – Happy Few di Antony Cordier (Francia, 2010)

Venezia 67 – Concorso – Happy Few di Antony Cordier (Francia, 2010)

Il cinema di Antony Cordier ruota intorno ad una tenera antropologia dei sentimenti, uno sguardo che mette al centro i corpi senza l’intenzione di superarne lo spazio occupato, quasi fosse il risultato di una performance libera registrata da una giusta distanza; è un cinema che vola apparentemente leggero e che sfortunatamente, nelle sale di un paese così intimamente cattolico da credere di non esserlo, strappa un’(in)comprensibile risata di scherno. Eppure Happy Few ci è parso impietoso nel mostrare il disequilibrio di una relazione nelle occasioni del suo esorcismo, una rifrazione del desiderio che per Cordier non è certamente priva di insidie. A differenza di Douches Froides, dove la violenza adolescenziale permetteva al regista francese di costruire un racconto doloroso sul possesso, rendendo possedute le stesse immagini da una forza scellerata, Cordier nel suo nuovo lavoro sviluppa un racconto laterale fatto di segni, impercettibili effrazioni, piccoli momenti di cinema illuminato che nei momenti migliori riesce a fare a meno della parola per affidarsi al gesto con una mirabile naturalezza.

Il primo scambio tra le due coppie è in fondo macchiato dal sangue sui vetri di un bicchiere rotto, dolce ma inesorabile immagine del contagio, segno residuale di una violenza che non può essere evitata se non per negazione, cecità, piccoli sotterfugi di complice ipocrisia, un’energia distruttiva che rimarrà latente e che si annida come perturbante minaccia tra le immagini di un cinema che pedina i suoi corpi senza violarli e assaggiarne fino in fondo le secrezioni; non che sia un male, siamo certamente lontani dalla discesa all’inferno a cui ci sottopone Chereau nel suo splendido e osceno Persecution, ed è forse questa distanza una delle possibili chiavi per leggere il cinema di Cordier, una forma di pudicizia dello sguardo che è interessato più ai movimenti dello sguardo negato invece che alla libertà degli amplessi.

La coppia sdoppiata in fondo scambia e sovrappone una modalità del vedere che è l’irrisolto oscillare tra il diritto e  l’ipocrisia nel chiudere gli occhi davanti ad un’immagine oscena, una serie di regole della visione per non sorprendersi gli uni nell’anima degli altri, un sistema che diventa soffocante e che riconduce tutto alla normalità nel momento in cui l’immaginazione, i relitti di un diario, i segni di un’intimità nascosta si sostituiscono all’immagine e la riportano verso la morte. In fondo Cordier, a questa soppressione della libertà sotto il maglio della relazione, preferisce i corpi de-genderizzati e cosparsi di farina che guardano verso l’orizzonte davvero libero del mare.

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