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A.C.A.B. di Stefano Sollima (Italia, 2011)

Con A.C.A.B. Stefano Sollima realizza un film che avrebbe potuto benissimo essere stato girato nell’epoca d’oro dei polizieschi all’italiana. Ma, c’è molto di più. Infatti, il quarantaseienne regista si dimostra un attento osservatore del popolo italiano e un buon interprete di certo cinema d’autore. Alla pari di tante opere di Elio Petri, anche A.C.A.B. ruota attorno a temi civili, mostrando una polizia che spesso regola male la giustizia e – a volte – detiene il potere dell’impunibilità. La maturazione stilistica di Sollima si registra nella carica esercitata dal regista per “aggredire” con lucidità il testo di Carlo Bonini e farlo proprio. La cifra dominante del suo primo lungometraggio è che non c’è un punto di riferimento stabile e definitivo. A.C.A.B. ha il merito di adottare meccanismi di coinvolgimento del pubblico, permettendo allo stesso tempo di riflettere sul fatto che la realtà non è mai soltanto bianca o nera: anzi, l’autore valorizza al massimo il fatto che entrambi i due aspetti possano e debbano convivere tra di loro. In modo inquietante, il pubblico assiste a come alcune convinzioni possano portare alla demolizione degli steccati tra etica e comportamento immorale. La nascita di un sentimento di disperazione in seno alla platea di spettatori è dovuta proprio a questo particolare tipo di dicotomia. Però, contemporaneamente, si confida nella speranza che un qualche personaggio prenda coscienza di questo processo di distorsione e abiuri agli atti sconsiderati finora compiuti.

In A.C.A.B., Sollima alza il tiro rispetto alla serie televisiva Romanzo Criminale da lui diretta, poiché qui si rapporta con il contesto storico italiano degli ultimi dieci anni. In fondo, solo un lasso di tempo molto ristretto ci separa da avvenimenti storici come quelli legati al G8 di Genova, all’assassinio dell’ispettore Filippo Raciti, al caso di Giovanna Reggiana e alla morte del giovane Gabriele Sandri. Insomma, si tratta di cicatrici di un passato prossimo che hanno avuto e hanno ancora un peso determinante nella nostra società. Merita rispetto la scelta adottata da Sollima, che ha deciso di lasciare sullo sfondo questi aspetti per così dire cronachistici, per puntare più agli aspetti metafisici e psicologici che muovono le reazioni dei suoi personaggi.

Molto bella la galleria di attori che hanno preso parte al progetto, con Pierfrancesco Favino credibilissimo nel ruolo di una guardia “bastarda” quanto lo è stato a suo tempo nel ruolo del Libanese, che del Cobra è una sorta di nemesi. Il poliziotto di Favino è senza dubbio ricco di sfaccettature, ma non si rischia mai il pericolo che possa risucchiare completamente la scena, lasciando sullo sfondo gli altri personaggi. A occupare in maniera preponderante lo spazio è il cameratismo virile di questa quadra composta dai bravi Filippo Nigro, Marco Giallini, Andrea Sartoretti e Domenico Diele. Ne consegue da sé che il sentirsi membro attivo di una comunità dove tutti fra loro si definiscono fratelli e gli altri sono i nemici produce un delirio alternante tra prove di solidarietà e momenti di ambiguità palese. A coronazione dell’unione tra il Cobra, il Negro, Carletto e Mazinga – questi i nomi dei celerini più anziani – vi è pure un significativo contrapposto iconografico: si tratta di un graffito posto nell’anticamera della caserma, dove i quattro amici sono stati dipinti come militi coraggiosi in una posa stentorea che ricorda vagamente i 300 spartani di Zack Snyder.

Menzione di merito alla colonna sonora che annovera canzoni come Police on my back dei Clash, Snow dei Chemical Brothers e Seven Nation Army dei White Stripes. Naturalmente, poi, non poteva mancare l’energico inno punk All Cops Are Bastards dei 4 Skins, il cui acronimo divenne un’espressione tormentone negli anni ’80 e ora da il nome al film.

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