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Ballata dell’odio e dell’amore di Alex de La Iglesia

Viene distribuito in italia in questi giorni, con due anni di ritardo per il fallimento di Mikado, quello che è il penultimo film di Alex De La Iglesia, Ballata dell’odio e dell’amore, vincitore del Leone d’Argento per la regia e dell’Osella per la sceneggiatura a Venezia 2010, seguito un anno dopo da La chispa de la vida, presentato a Berlino 62 e recensito da questa parte da Simone Buttazzi. Dopo gli eccessi grotteschi di El Dia de La Bestia, Alex De La Iglesia continua a svolazzare ben al di sopra delle righe, presentando con Ballata dell’odio e dell’amore la sua opera visivamente più potente e contemporaneamente più ambiziosa nel contenuto trattato. Negli anni del franchismo, il grasso e malinconico Javier, figlio di un clown morto durante la guerra civile, comincia a lavorare in un circo nel ruolo di spalla della principale attrazione del tendone, il pagliaccio Sergio, tanto amato dai bambini quanto violento nella vita privata. I due si contenderanno la provocante beltà della trapezista Natalia, spezzata in due tra l’amore affettuoso per il timido pagliaccio triste e quello totalizzante e masochistico verso Sergio . L’ossessione carnale per la donna li porterà ad una parossistica follia, scatenando nei due un processo di brutalizzazione destinato a sfociare in una sanguinosa resa dei conti in costume in cima all’imponente croce della Valle de Caduti dell’Escorial. Il genere storico-fantastico sdoganato da Del Toro e dall’ultimo Tarantino, trova in questo confuso pastiche pseudo-postmoderno la sua dimensione più pretestuosa e delirante, apprezzabile per la sua prorompente vitalità visiva che finisce però per imbellettare con ceroni burlesque e pulpismi gotici una sostanziale pochezza di contenuti. In un’affascinante fotografia cupa e sferzata da fari taglienti e fiotti di sangue, la sceneggiatura procede per svolte vacuamente demenziali, utili per giustificare gag a grana grossa ed esplosioni di violenza difficilmente inquadrabili in una coerente presa di posizione nei confronti del contesto politico. La brutalità rabbiosa e autoinflittiva dei due clown sfigurati vorrebbe essere sublimazione degli orrori del Franchismo, ma fa da piatto principale ad una vicenda sconclusionata e completamente orfana delle sapidità cinefile di Inglorious Basterds o della fascinazione per l’evasione fantastica de Il Labirinto del Fauno. L’efficacia caustica del film si esaurisce nell’incalzante collage dei titoli di testa, dove le immagini e le effigi dei gerarchi si mischiano senza soluzione di continuità con le foto di scena dei mostri cinematografici. Mordere la mano al Generalissimo è una ripicca splatter invitante e a tratti divertente, ma difficilmente sufficiente a fare qualcosa di più di un discreto film di genere.

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