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The Town di Ben Affleck: la recensione

Quello che sorprende davvero nel secondo lavoro come regista di Ben Affleck è una straordinaria capacità di biforcare il senso dell’immagine sabotandone l’equilibrio; è proprio nella forma solida e apparentemente impenetrabile di uno script potente che si annidano quelle differenze del ritmo che il precedente Gone Baby Gone riassorbiva in una deriva crepuscolare e interiore. La città in fondo, rispetto alle masturbazioni nolaniane, ha davvero una consistenza epiteliale, invisibile, un’eterotopia che si manifesta  attraverso corpi, nei volti di passaggio e in un campo di battaglia che confonde la visione intima con quella collettiva. La famiglia distrutta, senza una madre all’orizzonte che faceva di Gone Baby Gone quasi una versione marcia di Kramer contro Kramer, di Ordinary People vicina all’idea familistica che come un cancro sembra dipingere con colori lividi le città filmate da James Gray, infetta la forma smagliante di The Town con delle spaccature che crettano il meccanismo ad orologeria; un’ambivalenza che si fonde con l’azione e il dinamismo. E’ come se il dispositivo narrativo non abdicasse mai al ritmo scoprendone tutte le possibilità dissipative; ancora una volta è l’infanzia che sembra osservare le complesse tramature cittadine; volti di bambini colti per la strada mentre osservano con stupore una città che esplode e che viene contaminata da una violenza di natura endemica che non risparmia nessuno, neanche Doug MacRay, capace di sbattere fuori dall’appartamento il figlio in una sequenza che è dolorosa e traumatica come l’incipit Chabroliano de La Rupture, e che è chiarissima nel mostrarci il modo di lavorare di Affleck sulla relazione soverchiante tra inquadratura e ritmo; la stessa che per certi versi sta alla base di quella perversità strisciante che lega Doug a Claire in termini non semplicemente narrativi, ma grazie ad una serie di tagli dove le maschere mostruose indossate dalla gang assumono una ricchissima ambivalenza.

Allora la sensibilità di Affleck la si avverte non solo in questa densità fortissima dell’immagine “coinvolta” nel ritmo, ma nella capacità di allentare e di eliminare la distanza del dispositivo avvicinandosi ai corpi e alle loro azioni minime che diventano enormi, traumatiche, violentissime; fino all’essenza di una città come Charlestown che il regista Americano riesce a raccontare con un brevissimo frammento documentale di una statua osservata da un occhio aereo, quella di un giocatore di baseball che passa il cappello ad un bimbo.

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