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Berlinale 2013 – Concorso – An Episode in the Life of a Iron Picker Di Danis Tanovic (Bosnia, 2013)

Nazif sbarca il lunario facendo il recuperatore di metalli, è l’unico modo che ha per sostenere le due figlie e la moglie Senada; quando troverà questa prostrata dal dolore, la porterà all’ospedale più vicino. Senada porta in grembo un feto di cinque mesi ormai morto, rischia per questo una grave setticemia, ma per operare immediatamente occorrono circa cinquecento euro; inizia da questo momento in poi l’odissea di Nazif e Senada, parte della minoranza Rom Bosniaca, in un contesto sociale attraversato da sofferenza e pregiudizi. Danis Tanovic ricostruisce un fatto accaduto con l’intenzione dichiarata di tracciare la situazione legata alle condizioni delle minoranze nella Bosnia Herzegovina, e lo fa coinvolgendo direttamente i due protagonisti di una vicenda risalente al natale 2011; come ha raccontato in conferenza stampa, la famiglia di Nazif e Senada ha re-interpretato i fatti accaduti impiegando durante la lavorazione parte della stessa comunità Rom. Anche se Tanovic non ha voluto dare una definizione di questo suo ultimo lavoro, collocandolo in modo apparentemente  corretto in una zona liminale tra documentario e finzione, distinzione che come sappiamo ha poco senso rispetto a due forme che si cannibalizzano a vicenda, An Episode in the Life of a Iron Picker in realtà è un film monodimensionale che non riesce ad elaborare uno sguardo dell’ambiguità. Viene in mente un altro film visto in questi giornate Berlinesi, di cui parleremo presto, presente nella sezione Panorama e intitolato “The act of killing“, sorta di immagine capovolta del film di Tanovic, dove con un operazione per certi versi vicino alle finzioni documentali di Peter Watkins e al realismo cultuale di Tsai Ming Liang, Joshua Oppenheimer, con la produzione esecutiva di Werner Herzog ed Errol Morris,  ri-attualizza gli eventi più crudi  dell’indonesia metà anni sessanta, legati allo sterminio di migliaia di comunisti per mano dei gruppi paramilitari guidati da Anwar Congo. Tanovic, scegliendo una vera e propria “confezione documentaria” si avvicina con un didascalismo non dissimile dalla sua precedente filmografia, alla ricostruzione di un evento con l’ingenuità di quel cinema della realtà colpito dall’ossessione di cogliere tutto ad eccezione dell’invisibile, un approccio che non contempla nessuna rottura dell’assetto visivo nè qualche apertura verso l’imprevisto. Preoccupato di ricostruire qualsiasi dettaglio con la ripetizione rituale dei gesti quotidiani legati al lavoro, si serve, per sua stessa ammissione, di un setting quasi televisivo (abbiamo usato tre videocamere per filmare tutto) contraddicendo la forma esibita di un cinema “en direct” e rimanendo ad una pericolosa distanza di sicurezza rispetto ai protagonisti della vicenda. Al di là delle intenzioni, il suo cinema non subisce un cambiamento sostanziale dalla programmaticità di No Man’s Land, Tanovic cambia guscio ma non guadagna prossimità rispetto alle cose che osserva.

 

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